di Roberto Dulio
Architetture di Marcello Piacentini. Le opere maestre, Mario Pisani. Con una prefazione di Sandro Benedetti Clear, Roma 2004 (pp. 148, € 29,00)
Tra le due guerre la figura di Marcello Piacentini era notissima; il suo ruolo di organizzatore della cultura architettonica, dispensatore di incarichi, arbitro di concorsi, stava alla pari con quello di architetto; le sue opere erano altrettanto conosciute, anche fuori dai confini nazionali. Dopo la guerra le frange progressiste della critica ne decretavano la condanna, morale e culturale, sancendo un ostracismo che, di fatto, non trovava una reale rispondenza nei ruoli e nelle attività che l’architetto continuerà ad esercitare fino alla sua morte, avvenuta nel 1960.
“Marcello Piacentini: morì nel 1925”, titolava Bruno Zevi su L’Architettura cronache e storia (n. 58, 1960) all’indomani della morte dell’architetto, impostando, con l’acuta parzialità critica che lo contraddistingueva, la duratura immagine storiografica di Piacentini. Prima come rinnovatore del gusto architettonico nazionale, sull’orizzonte francese, tedesco e austriaco; mentre dopo il 1925 le sue opere, secondo le parole di Zevi: “rimangono vistose e tristemente note. Nella storia del costume, riflettono la dittatura fascista, ne sono l’emblema […], una sequenza di folle retorica e cinismo”.
L’equazione tra l’architettura di Piacentini e l’ideologia fascista cristallizzava in maniera definitiva una realtà dai confini ben più incerti e contraddittori. Porre una stretta relazione tra forme dell’architettura e ideologia – fascista o di altra natura politica o etica che fosse – era esattamente quello che Piacentini aveva strenuamente cercato di evitare. Fin dal suo fortunatissimo volume Architettura d’oggi (Roma 1930), l’obiettivo era stato quello di porre una mediazione tra le correnti avanguardiste e quelle conservatrici della cultura architettonica, cercando un punto di equilibrio bilanciato dalle diverse occasioni in cui era più o meno lecito l’utilizzo di un determinato linguaggio. La cultura architettonica, nelle intenzioni di Piacentini, doveva essere dibattuta in un ambito strettamente disciplinare.
Quello che l’architetto tentava di perseguire, non solo con la sua azione diretta, ma anche attraverso le riviste – Architettura è dal 1932 sotto la sua direzione – e il suo ruolo accademico, era lo sviluppo e la diffusione di un linguaggio architettonico appropriato e dignitoso; memore delle tradizioni ma non ignaro dell’avanguardia; adatto ad un livello tecnologico consueto; esente – nella sua accezione diffusa – dal perseguire la soluzione eccezionale e attento piuttosto a fornire un modello facilmente trasmissibile.
Alcuni di questi obiettivi erano del resto comuni agli schieramenti più intransigenti dell’avanguardia; soprattutto quello di un linguaggio comune e diffuso era uno degli elementi – pur secondo differenti modelli ideali – che tentava di perseguire Giuseppe Pagano. E proprio tale prerogativa costituirà il terreno di confronto tra Piacentini (che certo vi aggiunge il peso del suo forte potere di contrattazione) e l’architetto istriano, e con la generazione dei giovani architetti sostenuti dallo stesso Piacentini, dei quali, non bisogna dimenticarlo, facevano parte anche Giovanni Michelucci e Luigi Piccinato.
Ma la differenza tra Pagano, o un intellettuale prestato all’architettura come Pier Maria Bardi, e Piacentini, era proprio la volontà di legare indissolubilmente un linguaggio formale – e per i primi due si tratta del razionalismo – a un significato politico; Bardi fu addirittura autore del celeberrimo pamphlet Rapporto sull’architettura per Mussolini (Roma 1931) in cui si auspicava dal regime la chiara legittimazione di una determinata “arte di stato”, ovvero fascista. Piacentini polemizzerà con i conservatori a oltranza, sarà attaccato dai modernisti più rigorosi, ma troverà sempre una strategia d’azione in cui elaborare il proprio progetto. Si riserverà spesso l’intervento in aree centrali delle città italiane – come a Brescia, Torino, Genova – con un ben determinato linguaggio formale, ma appoggerà Michelucci e il Gruppo Toscano, per esempio, nella realizzazione della stazione di Firenze (1932-35) e chiamerà altri architetti, tra cui lo stesso Michelucci e ancora Pagano, per la città universitaria di Roma (1932-35).
Gli ultimi anni del regime, a partire dal 1938, con la vicinanza sempre più incombente della Germania, la promulgazione delle leggi razziali, l’autoritario giro di vite che il fascismo impose alla nazione, determinarono cambiamenti profondi. Nel dopoguerra sotto la connotazione di “architettura fascista” venne riconosciuta con fastidio quella retorica ufficiale e monumentale che spesso aveva visti Piacentini tra i suoi fautori. Quella che era stata un’aspirazione della gran parte degli architetti tra le due guerre – essere gli architetti del fascismo – venne ricondotta solo all’immagine più superficialmente legata a quel periodo. E Piacentini, che aveva cinicamente usato il suo rapporto col regime per garantirsi il potere necessario a compiere il suo progetto disciplinare, venne identificato come un forte sostenitore ideologico del fascismo.
La complessità del ruolo di Piacentini è del tutto assente nel lavoro che Mario Pisani dedica alle opere maestre dell’architetto romano. Il volume, che non è certo un testo pionieristico sull’opera di Piacentini, non si sofferma minimamente sul ruolo di organizzatore della cultura architettonica strenuamente perseguito dal suo protagonista. In questo senso rimane di gran lunga più ricco di suggerimenti l’ormai non recente testo di Mario Lupano Marcello Piacentini (Roma-Bari 1991), piuttosto che l’ancora più datato ma sempre autorevole volume di Giorgio Ciucci Gli architetti e il fascismo (Torino 1989) o il più recente testo di Paolo Nicoloso Gli architetti di Mussolini (Milano 1999). Del tutto assente anche il tema della responsabilità politica dell’architetto, sul quale si era soffermato Sandro Scarrocchia in Albert Speer e Marcello Piacentini (Milano 1999), anche se l’ambiguo titolo del volume – un espediente retorico per argomentare il confronto – celava la realtà di due situazioni ben differenti.
Poco indagato anche il tema del rapporto di Piacentini con la cultura tedesca e austriaca, che sostanziava il volume di Arianna Sara De Rose Marcello Piacentini. Opere 1903-1926 (1995). L’attenta cura grafica e redazionale del volume non supplisce alla mancanza di nuovi apporti – critici, documentari e bibliografici – sugli edifici presi in esame da Pisani. Finanche la scelta delle opere maestre lascia qualche dubbio, dal momento che sono stati inclusi lavori di modesta entità – come La Quirinetta (1925) o la villa Piacentini alla Camilluccia (1930-32), entrambe a Roma – e sono invece assenti importanti lavori come quelli di piazza della Vittoria a Brescia (1928-32), del secondo tratto di via Roma a Torino (1934-38) o del grattacielo di piazza Dante a Genova (1937-41).
Inoltre se una delle possibili chiavi di indagine si sarebbe potuta concentrare sull’attività strettamente progettuale di Piacentini – rifacendosi anche simbolicamente alla sua provocatoria ‘indifferenza’ ideologica – perché limitarla a queste poche opere e soprattutto senza chiedersi qual era il ruolo effettivo di Piacentini? Qual era il suo grado di partecipazione a uno sforzo progettuale ripartito su una grande mole di lavoro, gestita contemporaneamente dai più studi aperti dallo stesso architetto? Quanti e quali erano i suoi collaboratori nell’attività professionale? Quesiti che il volume non pone minimamente, appellandosi ad una sorta di necessaria revisione di giudizio sull’opera di Piacentini, per sottrarlo a un presunto oblio di cui sostanzialmente l’architetto non è mai stato vittima.
Roberto Dulio Architetto
Quesiti ancora aperti su Piacentini
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- 30 settembre 2005