di Manolo De Giorgi
Lina Bo Bardi. Obra construida, a cura di Olivia de Olivera, 2G n. 23/24, Editorial Gustavo Gili, Barcellona, 2003 (pp. 255, euro 45)
Una donna bruna, vestita per lo più in jeans, spigolosa quanto intensa. Un doppio cognome che parla prima di un passato italiano vicino alla Domus, a Carlo Pagani, ad un apprendistato nello studio di Ponti, poi di una seconda fase brasiliana legata per larga parte al personaggio a cui si è unita e che più di ogni altro ha contribuito all’affermazione dell’arte moderna in quel paese, il Pietro Maria memorabile movimentatore culturale dell’epoca di Bottai.
Ma Doña Lina (così affettuosamente e informalmente chiamata da tutti a San Paolo) è stata soprattutto una progettista autonoma, sganciata, anti-istituzionale anche per un paese come il Brasile piuttosto poco istituzionale in ogni manifestazione. La sua è un’architettura selvaggia sia quando deve affrontare l’edificio multipiano che quando si imbatte nel tema della capanna; sia quando progetta la chiesa per un ordine di suore francescane, che quando deve collocare su un qualche supporto dei Renoir.
Il numero monografico di 2G a cura di Olivia de Olivera rimette in circolazione un’opera fino ad oggi considerata più interessante che di sostanza e che di questi tempi balza invece prepotentemente alla ribalta per il tema del meticciato al contrario, cioè di cosa avviene in architettura a una cultura alta, sofisticata, consolidata ed europea quando si mescola con una cultura cosiddetta ‘bassa’, giovane e popolare? Il confronto tra questi due estremi è uno scontro autobiografico risolto, alquanto sorprendentemente, a tutto favore della cultura ‘bassa’, del selvaggio, dell’etnocentrismo da mandare a pezzi purificandosi così di fronte alla natura, allo spazio, ai toni della luce australe, a committenze primordiali.
Aiutata probabilmente anche da un interesse per il surrealismo innestatosi sulla sua base di progettista razionalista, Lina Bo lascia correre più liberamente in questo paese il flusso delle sue percezioni. Questo significa che il più delle volte è la forma non finita a prendere il sopravvento, che alcune scale in cemento armato sembrano star su secondo la casualità miracolistica di una favela, che lo stesso cemento armato viene lasciato sbrodolare e colare ‘naturalmente’ come nelle riprese di getto del centro culturale del SESC Pompeia, che interessa di più un tono generale dell’opera, che il dettaglio curato venga considerato sinonimo di un’inutile attardamento borghese del nostro simbolico architettonico ridicolizzato a queste latitudini e a queste condizioni.
Lina Bo risulta così per intero progettista brasiliana, saldamente incollata al Brasile e ai suoi destini anche politici e tiene l’Italia come retrogusto, non più che un piccolo posto nell’inconscio molto lontano. Dal surrealismo sembra aver assimilato la ricerca di effetti di lievitazione in opere come la Casa de Vidrio al Morumbì: parallelepipedo su pilotis di 17 cm. di diametro che si mimetizzano con la sezione degli alberi di una foresta urbana. O al MASP dove il corpo del museo di 70 x 29 viene sospeso in tutta la sua dimensione su cavalletti nel centro di San Paolo.
Dal surrealismo ha imparato ad utilizzare anche l’incontro/scontro o il montaggio tra pezzi di architettura non omogenei come nella cappella di Santa Maria dos Anjos a Vargem Grande che vede l’accostamento tra un volume centrale massiccio da E42 ed un portico in legno e frasche di palma quasi amazzonico ed instabile. Oppure nella casa La Torracia a San Paolo: misterioso aborto nato tra un volume quasi cieco intonacato a sassolini e degli inserti di verde verticale esuberante, che fuoriescono in facciata come se si trattasse di un edificio senza manutenzione lasciato andare nel tempo e divorato dalla natura.
La sua opera più famosa, il museo del MASP di San Paolo, oggi la farebbe soffrire come fa soffrire tutti quanti ricordano il suo allestimento post-albiniano, con i Goya e gli impressionisti montati su cavalletti in vetro incastrati in basi di pietra e l’intero piano con tutta la collezione percepibile in un colpo solo, oggi smantellato per le inesistenti ragioni museografiche di aumento della superficie espositiva di un grigio direttore. In un Brasile che si allinea, che smussa le differenze, che non era il suo.
Manolo De Giorgi, architetto e critico
Lina Bo Bardi, un’italiana a San Paolo
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- 28 ottobre 2003