The Early Louis Sullivan Building Photographs, Crombie Taylor, Jeffrey Plank,William Stout Publishers, San Francisco, 2001 (pp. 259)
Nella prolusione ai corsi della Facoltà di Architettura di Parma, tenuta lo scorso anno accademico e recentemente pubblicata nella raccolta dal titolo Pianura Proibita, Cesare Garboli ha condotto una riflessione sul lavoro dello storico che potrebbe risultare utile negli affollati crocevia interpretativi dell’architettura contemporanea.
Contro l’artificio delle ricostruzioni storiografiche che, carte d’archivio alla mano, pretendono di spiegare tutto, Garboli rivendica l’indicibilità della realtà così come è realmente accaduta. Il limite dello storico, infatti, sta nel fatto che egli “scrive e racconta quando il passato è già esploso”.
Per noi che ci occupiamo di storie di edifici che hanno al massimo un secolo di vita questa considerazione sembrerebbe superata dall’avere spesso ben visibile davanti ai nostri occhi, seppur invecchiata o manomessa, la realtà fisica da studiare, completa di documentazione tecnica. Eppure, anche lo storico dell’architettura contemporanea commette l’errore di non cogliere la propria condizione di osservatore di un passato “già esploso”. Quanta possibilità abbiamo di comprendere, ad esempio, la portata rivoluzionaria della villa a Poissy di Le Corbusier se non cerchiamo di immedesimarci nell’ebbrezza che possono aver provato Pierre Savoye e sua moglie, nei primi anni Trenta (non di più a quanto sembra), percorrendo in automobile la strada dai boulevard parigini fino al garage sotto la loro bianca promenade architecturale?
Poco possono dirci i disegni pubblicati sul secondo volume dell’Œuvre Complete, mentre tutt’altro valore documentale in questa direzione hanno le fotografie, seppur disabitate, contenute sulle stesse pagine. Ecco però una chiave per aprire un punto di vista sul passato ancora inesploso di un’architettura. Lungi dall’affermare l’oggettività della veduta fotografica, non possiamo non rilevare la sua capacità di congelare il tempo preciso di vita di uno spazio architettonico. Le “immagini della storia” che Johan Huizinga, riferendosi alle testimonianze dell’arte figurativa, evocava a fondamento dello studio delle civiltà potrebbero allora essere, per la contemporaneità, le immagini fotografiche.
Chi non ricorda lo scatto notturno – firmato da Julius Shulman – dedicato alla Case Study House n.22 di Pierre Koenig, con le due ragazze intente a conversare sulla terrazza coperta proiettata su Los Angeles? Quanto dice quell’immagine della storia, non solo architettonica, della California? Lo storico dell’architettura contemporanea che ha la fortuna di avere a disposizione materiale fotografico dell’epoca in cui l’edificio oggetto dei suoi studi è stato costruito ha dunque a disposizione una marcia in più nella corsa a ritroso verso il tempo da ritrovare. Anche in questo terreno, però, lo storico dovrà muoversi con molta cautela, avendo cura di individuare i termini della produzione dell’immagine e il suo valore come opera d’arte autonoma (come ci insegna ad esempio Beatriz Colomina nel fondamentale saggio Privacy and Publicity).
Sono queste le prime considerazioni stimolate dalla lettura del volume The Early Louis Sullivan Building Photographs, curato da Crombie Taylor e Jeffrey Plank, due storici dell’architettura (il primo di recente scomparso) che hanno dedicato molti anni allo studio dell’opera del maestro americano attraverso i lasciti fotografici. Questo straordinario libro di grande formato, anche grazie a una notevole qualità di stampa (made in Italy), apre infatti un nuovo fronte di lettura sia sul lavoro di Sullivan, sia sul ruolo della fotografia nella ricerca d’architettura. Va detto che gli edifici di Sullivan e soprattutto molti dei loro eccezionali dettagli decorativi sono i protagonisti di un altro splendido libro fotografico, The Idea of Louis Sullivan, edito nel 1956, in cui l’obiettivo di John Szarkowski rivelava inediti temi di riflessione critica. In tempi in cui la storiografia architettonica contemporanea muoveva i suoi primi passi, Szarkowski sintetizzava magistralmente l’ascesa e la caduta del genio di Sullivan in immagini divenute celebri, come quella in cui si vede l’elegante interno della banca di Owatonna frequentata dai farmer del Minnesota.
Il lavoro di Taylor e Plank è però di tutt’altra natura. Essi hanno raccolto, pubblicato e commentato con cura le fotografie degli edifici di Sullivan eseguite da tre fotografi contemporanei dell’architetto: J.W. Taylor (1846-1918), R.D. Cleveland (1851-1918) e H. Fuermann (1861-1949). Sono immagini usate a fini commerciali e solo in parte pubblicate su riviste, che hanno prima di tutto il merito di restituirci lo stato originale delle architetture sullivaniane, senza le pesanti alterazioni (come nel caso del Carson Pirie Scott Building o del Gage Building) e soprattutto prima delle incredibili demolizioni (l’interno dell’Auditorium e tutta una serie di importanti edifici a cominciare da quello più famoso della Borsa di Chicago), in nome di un atteggiamento nei confronti della memoria dei luoghi che oggi l’America si trova giocoforza a dover superare.
Oltre alla documentazione filologica relativa alla singola architettura c’è l’intorno, specialmente quello urbano, a comporre un termine di paragone decisivo per comprendere a fondo i caratteri quasi epici del pensiero dell’architetto. Chiamato a costruire per la città americana in espansione, Sullivan non solo mette a punto i principi estetici del “tall office building” , ma traccia anche l’immagine di una nuova architettura urbana che, anticipando le visioni dei suoi successori, è composta dal grattacielo sorto “dalla terra come una espressione unitaria, dionisiaca nella sua bellezza” (sono parole tratte dalla sua autobiografia). Basta allora guardare le fotografie del Guaranty Building a Buffalo (1894-96), la cui solitaria e potente visione volumetrica d’insieme, tutta strutturale, è quasi privata di concessioni al delicato e studiatissimo disegno ornamentale della terracotta di rivestimento, per comprendere le tensioni sullivaniane verso un “ambiente congeniale” alla sua idea di natura esoterica del grattacielo.
Tra l’altro, proprio le immagini che Ralph D. Cleveland, amico di Sullivan, dedica al Guaranty Building, ma anche molte di quelle che Fuermann scatta alle banche di ‘provincia’, invitano a una serie di nuove considerazioni su alcuni grandi temi portanti della ancor poco frequentata (a parte gli studi di Mario Manieri Elia) produzione teorica dell’architetto americano. Nel testo What Is Architecture?, pubblicato su American Contractor nel 1906 (e ora raccolto nei Public Papers curati da Twombly), Sullivan insiste sul fatto che l’architettura, come atto sociale, sia l’espressione dello sviluppo storico di “tre forme elementari”: il pilastro, l’architrave e l’arco. Osservando queste fotografie, la stampa in bianco e nero e gli effetti della luce pongono in primo piano i ritmi strutturali lasciando più in ombra, quasi come contrappunti, gli elementi ornamentali e cromatici. Così la combinazione pilastro-architrave-arco si ripete ossessivamente con un vigore che fa intendere bene quali fossero realmente i termini dell’architectural ornament sullivaniano, concepito in stretta aderenza alle linee portanti della costruzione.
Questo impianto compositivo definisce un linguaggio architettonico che, attento ad interpretare un preciso ruolo per la civiltà americana, esprime la forza della tecnica moderna attraverso la sottile e delicata trama dei riferimenti alla natura. Il risultato più sorprendente è allora quello di uno spazio interno disegnato dalla luce ritagliata entro le geometrie del sistema struttura-ornamento. È quella luce che oggi, grazie alle immagini di questo libro, possiamo solo vagamente intuire.
Federico Bucci, professore di storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano