Federico Bucci (1959-2023) per Domus: Reyner Banham e la storia dell’immediato futuro

Ricordiamo lo storico dell’architettura e prorettore del Politecnico di Milano recentemente scomparso con le parole di una delle sue illuminanti e taglienti recensioni, che hanno accompagnato molti anni della nostra rivista.

Di Federico Bucci, scomparso tragicamente all’età di 63 anni, resta l’eredità di uno storico dell’architettura prolifico e acuto, con le sue ricerche su Albert Kahn, Luigi Moretti, Franco Albini, e l’insegnamento presso il Politecnico di Milano di cui dal 2011 dirigeva il polo di Mantova, consolidandolo nella sua qualità di scuola di architettura e realtà centrale per la vita culturale del territorio (Domus aveva dedicato pagine nel 2017 al progetto MantovArchitettura). Ma della sua figura era anche parte una natura di osservatore raffinato e di grande comunicatore, di critico capace di evidenziare i temi fondamentali sottesi a progetti, ricerche e dibattiti. Per Domus, con la quale ha collaborato per oltre tre decenni, Bucci ha firmato recensioni che, a partire dai libri che presentavano, si estendevano in altrettante vivaci lezioni ed argomentazioni di assoluta efficacia. Per ricordarlo, torniamo al testo che dedicava alla figura di Reyner Banham, sul numero 850, nel luglio 2002.

Domus 850, luglio 2002

Reyner Banham e lo strepito dei frigoriferi

Reyner Banham: storico dell’“immediate future” o “custode dei frigidaires”? Mentre la prima definizione ha una riconosciuta valenza internazionale, la seconda racconta una vecchia ma bella storia che vide Banham, negli anni Cinquanta battagliera firma di Architectural Review, impegnato in un acceso scambio di vedute con i migliori esponenti della cultura architettonica italiana. Ma in realtà, pur nella evidente contraddittorietà semantica, i due appellativi assegnati a Banham da fonti diverse ben definiscono la carriera intellettuale di uno degli ultimi protagonisti di quella “critica operativa” di cui oggi avremmo tanto bisogno per scuotere un po’ le paludose e globalizzate acque dell’architettura contemporanea, su cui galleggiano tranquille le solite ‘stelle’ o ‘stelline’ (sempre le stesse), ovunque celebrate in mostre, libri e riviste, senza mai essere sottoposte a un serio lavoro di verifica della loro azione creativa.

È dunque un peccato che l’ottima ricerca di Whiteley, attento e scrupoloso nel ricostruire tutta la complessa serie di temi e problemi affrontati da Reyner Banham in quasi quarant’anni di lavoro intellettuale, non abbia dedicato abbastanza spazio alle relazioni intrattenute con l’Italia dallo storico e critico inglese; relazioni così ricche di interessanti spunti di riflessione per avviare un confronto con le attuali condizioni di debolezza della critica d’architettura. Ma, forse, siamo noi ad essere troppo di parte. Non solo perché vorremmo che fossero amplificate le vicende di un capitolo della storia architettonica nazionale, ma anche perché dal nuovo filone della storia della storiografia architettonica ci aspettiamo una maturità (o meglio, una salutare ingenuità) che inviti tutta la storia dell’architettura ad uscire dalle noiosissime secche della cronaca archivistica, affrontando le pericolose ma affascinanti avventure dell’interpretazione.

“La Storia è la mia disciplina accademica.La Critica è l’attività che svolgo per denaro” diceva Banham, con la consueta irriverente vis polemica. Forse, come scrive Whiteley, in questo modo intendeva distinguere nettamente l’attività di storico – condotta nell’insegnamento universitario e attraverso libri ormai divenuti dei classici come Theory and Design in the First Machine Age, The Architecture of the Well-Tempered Environment, fino a Concrete Atlantis – da quella di critico ‘militante’ tra le file dell’avanguardia architettonica europea o americana, testimoniata nei numerosissimi interventi pubblicati in periodici anche non specialistici.

Domus 850, luglio 2002

Eppure, la scrittura di Banham, sia quando affrontava dotte ricerche storiche sia quando si trovava alle prese con gli interventi sull’attualità, non mutava il suo personale stile diretto, intelligentemente provocatorio, e soprattutto sempre lontano da quei tecnicismi lessicali che spesso nascondono l’assenza di idee. Come quando, esponendo il proprio punto di vista ‘transatlantico’ sul riutilizzo della fabbrica FIAT - Lingotto di Torino, con coraggio e franchezza non comuni prendeva posizione dalla tribuna di Casabella in favore di una onesta demolizione, piuttosto che assistere alla trasformazione del glorioso edificio in un supermercato della ‘cultura’. Era il 1984. Un anno prima era stato tradotto in italiano il libro di Banham su Los Angeles pubblicato nel 1971, testo inaugurale di quella prolifica ‘stagione americana’ che segnerà gli ultimi vent’anni della sua vita. In questo periodo Banham aveva avviato una stretta collaborazione con la Casabella diretta da Gregotti, scrivendo articoli sulla Silicon Valley (n.539, ottobre1987), le dighe della Tennessee Valley Authority (n. 542-543, gennaio-febbraio1988), etc... Sembrava quasi un risarcimento per i fatti di quel lontano 1959, quando Rogers dalla sua Casabella aveva tuonato contro Banham bollandolo come “custode dei frigidaires”, per aver definito il movimento neoliberty “the Italian retreat from modern architecture”.

A più di quarant’anni di distanza, ripercorrendo quel dibattito (uno degli ultimi esercizi di libera critica architettonica) troviamo che le accuse di Banham alle nostalgie romantiche degli architetti milanesi e torinesi non avevano certo l’intenzione di difendere l’ortodossia del Movimento Moderno. Rogers ben lo comprende quando rispondendo a Banham (su Casabella-Continuità n. 228, giugno 1959) sfiora appena il nocciolo della questione posta dal critico inglese. Banham infatti, nel suo famoso articolo su Architectural Review dell’aprile 1952 (tradotto in italiano su Comunità, n. 72, 1952) si soffermava sulla qualità architettonica della scuola romana, in particolare sull’opera di Luigi Moretti, del quale aveva tessuto gli elogi in un testo dedicato alla Casa del Girasole (Architectural Review n.113, febbraio 1953). Rogers risponde piccato che “il formalismo abile ma velleitario [di Moretti] non solo non è indicativo delle supposte mete non raggiunte da noi, ma nega i presupposti teorici e soprattutto morali della nostra lotta, la quale rifugge dall’estetismo e dal gioco intellettualistico”. Banham dunque coglie nel segno, mettendo il dito nella piaga dello scontro politico, tutto italiano, tra l’etica rogersiana (passata attraverso la ‘catarsi’ del dopoguerra) e la libertà creativa innegabilmente moderna di un personaggio scomodo come Moretti, fascista mai pentito.

Di tutta questa vicenda il libro di Whiteley non parla, ma non possiamo fargliene una colpa. Resta il valore di un bel volume che riflette utilmente sul lavoro di Reyner Banham: uno storico che non accettava comode formule interpretative, un critico che metteva coraggiosamente in campo la propria vivace capacità di affabulazione in favore della conoscenza dell’arte del proprio tempo.

Reyner Banham, Historian of the Immediate Future, Nigel Whiteley, The MIT Press, Cambridge Mass./London, 2002 (pp. 494, s.i.p.)

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