Suona il citofono ed esco a ritirare il pacchetto.
Squarcio la busta e la butto nell’immondizia, porto dentro solo la confezione che disinfetto con l'amuchina. Poi estraggo il nuovo smartphone di punta di Huawei, il P40 Pro, e do una pulita anche a quello.
In un mondo parallelo senza Covid-19, ora sarei probabilmente in una capitale europea, Parigi o Londra probabilmente, a fare la fila per ritirare il sample del telefono dopo la presentazione di Richard Yu, capo del reparto consumer dell'azienda cinese. Invece la presentazione me la sono vista da solo, su YouTube, scambiando qualche parere con amici e colleghi via Whatsapp; lo stesso Yu era completamente solo sul palco dove solitamente fanno la loro comparsa uno o più ospiti e su cui una volta è entrato alla guida di una 911 (ma c’era un motivo, annunciava la partnership con Porsche Design).
Google ha ridisegnato la nostra esistenza e Huawei è la controprova
L’arrivo sul mercato dei nuovi Huawei P40, privi dei servizi mobili di Big G che diamo oramai per scontati, rappresenta un ottimo spunto per ragionare su come vita e cloud sembrino oramai parte di un unico grande progetto.
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- Alessandro Scarano
- 02 aprile 2020
Uno scenario distopico, come distopica è in qualche modo la nuova gamma di telefoni di fascia alta Huawei. Che girano con Android 10, l'ultimo sistema operativo sfornato da Google, derivato da Linux e quindi open source, ma di Google non possono sfruttare gli servizi proprietari, dopo il ban imposto l'anno scorso da Trump che considera, senza mezzi termini, Huawei come un’azienda di spioni. Questo vuol dire che nel telefono non troverete tutte quelle applicazioni grazie a cui Google è diventato Google in 22 anni di storia. A partire da Maps, che molto probabilmente, ironia della sorte, il fattorino ha usato per arrivare a casa mia a consegnarmi questo telefono bellissimo e de-googlizzato, lanciato in diretta su YouTube, sussidiaria di Mountain View dal 2006, anno della sua acquisizione. E così via.
“Nel momento in cui radio e televisione ci portano notizie e informazioni in massa da tutte le parti del mondo, le tecnologie di controllo, come il telefono e le reti dei computer, ci permettono di andare in qualsiasi punto e interagire”. Così scriveva, con profetica lucidità, il grande teorico dell'era elettronica, Derrick de Kerchkove, nel suo testo culto del 1995, La pelle della cultura. In cui, tra le altre cose, ragiona su una necessaria riformulazione, nell’epoca del computer, del rapporto tra dentro e fuori, tra uomo e ambiente, elaborando la metaforica immagine “di un umano che inspira informazioni complesse ed espira materiali trasformati”. Le tecnologie elettroniche come estensioni del nostro sé e come completamento della nostra mente per orientarci nel mondo: difficile pensare a una azienda che ha meglio realizzato questa visione di Google. Soprattutto da quando lo smartphone, sempre in mano, sempre in tasca, è diventata la nostra “estensione elettronica” per eccellenza.
Come si scrive una certa parola, cosa significa quella parola, come si arriva in un posto, qual è il numero della pizzeria sotto casa. Sono tutte informazioni che non ci preoccupiamo più di tenere a mente, perché sono su Google. D'altra parte, “Il nostro cervello non ha bisogno di essere veloce, basta che sia intelligente, cioè ben connesso”, scrive sempre de Kerckhove. Non potere raggiungere certe informazioni il cui accesso diamo per scontato è straniante, come se ci fosse stata tolta una parte di noi; è l'esperienza di spaesamento che prova qualsiasi straniero in visita in Cina senza una buona vpn che eluda il blocco nazionale verso Mountain View: ci si può attrezzare con delle alternative, ma è come stare dentro una sorta di hangover.
“Sembra che ora sappiamo la risposta di tutte le domande. Ma in realtà bisogna cercarla ogni volta. I nostri ricordi sono in declino, non abbiamo più bisogno di ricordare centinaia di numeri di telefono come una volta”, eccolo il lato oscuro dello smartphone raccontato a Domus da Danny Boyle, autore anche di un lucidissimo biopic dedicato a Steve Jobs, forse tra i suoi film migliori. Per il regista inglese, in cambio della nostra bella iniezione di comodità, stiamo diventando pigri come gli umani inerti di Wall-E, grassi indolenti e con la faccia sempre nello schermo. Intanto vero è che la nostra identità digitale, quella che in qualche modo ingenuamente continuiamo a immaginare nei nostri device, viaggia sopra le nostre teste; io che provo per lavoro un certo numero di telefoni Android ogni anno, mi sono oramai abituato a vedere quei dispositivi – con display sempre più belli e fotocamere più potenti – alla stregua dei corpi in cui si reincarnano i personaggi di Altered Carbon: meri involucri, in cui alla prima accensione si insedia un'anima estesa di dati mediante il login al mio account Google. Alla fine i nostri smartphone, prima che il portale più usato per accedere ai dati, ne sono diventati l'appendice. E noi la loro.
Anni di foto, i miei documenti della scorsa una decade, le password e i contatti, il mio calendario personale. L'elenco delle mie app Android, comprese quelle che ho acquistato. La tastiera Gboard che ha imparato come scrivo. Sono solo alcuni dei dati che comodità, per velocità, forse superficialmente, ho chesto a Google di custodire per me. I Google Mobile Services (GMS) sono quell'ecosistema di servizi forniti solitamente di default all'acquisto di un telefono Android, banalmente rappresentati da un universo di singole app che molti produttori di smartphone aggregano in una simpatica cartellina Google che trovi in home al primo avvio del tuo nuovo telefono: Gmail, il calendario Google, i contatti e così via. YouTube e Google Maps, la quasi inutile videochat Duo e così via. Dal maggio dell'anno scorso, dopo che il nome di Huawei è stato iscritto dal governo Trump nella Entity List del Dipartimento di Commercio americano, l'azienda cinese non può più integrare i GMS nei suoi telefoni. Questo non ha fermato Richard Yu. Passa l'estate e a settembre presenta Mate 30, l'ultimo aggiornamento di quella che a Shenzhen era nata come linea phablet; a fine marzo, in mondovisione paradossalmente su YouTube, Richard Yu lancia la nuova serie P40, ennesima conferma dell'ormai consolidata tradizione progettuale Huawei: nuova fotocamera sempre in collaborazione con Leica, con più megapixel e magari qualche lente in più rispetto all'anno scorso (si arriva a 5 nel modello P40 Pro Plus, una macchina da guerra fotografica); nuovo processore Kirin, grande fluidità, batteria che dura ancora di più; design del dispositivo rivisto e migliorato (tutti i 4 bordi sono stondati nel P40 e P40 Plus, ne riparleremo). Aggiornamento per Emui, l'interfaccia software e ci sono anche i comandi “radar” come sull'ultimo Pixel di Google (sarà un caso?).
Un ottimo smartphone questo P40, “il migliore smartphone Huawei di sempre”, per parafrasare qualcuno, con la fotocamera del P40 Pro – il modello che ho provato nell'ultima settimana – che eclissa la concorrenza nella classifica di riferimento curata da DxOMark. A sostituzione dei servizi proprietari di Big G, il loro surrogato Made in Shenzhen, i Huawei Mobile Service. Che li sostituiscono decentemente, ma sono anche un nuovo cloud da sottoscrivere e su cui caricare i propri dati, su cui investire dei soldi per avere più spazio e così via. C'è un App Store parallelo – AppGallery – e puoi installare con qualche stratagemma (TrovApp) molte delle app che hanno tutti gli altri Android, a parte qualcuna che senza i GMS non gira proprio. Si può anche impostare Google come motore di ricerca (ma scordati Chrome) e presto arriverà un assistente vocale (Celia, che suona un po' come la Siri cinese). Com'è questa vita quasi senza Google? Dopo qualche giorno di uso la sensazione perdurante è una sorta di inebriamento esotico, come se un giorno ti svegliassi e scoprissi di vivere oramai da un po' in un altro paese. Un paese dove, ca va sans dire, non funziona Google Maps.