Gli oggetti definiscono chi siamo. Lo fanno per possesso. Vale a dire che lo fanno per differenza. Io posseggo un oggetto che l’altro non possiede. Questo semplice fatto mi distingue da lui. Ma gli oggetti ci definiscono anche in un altro modo. Per contagio, o per contatto. Dunque per consumo.
Quando ci impossessiamo di un oggetto - quando lo compriamo, lo troviamo o lo rubiamo - non ci impossessiamo soltanto della sua forma, del materiale di cui è fatto o dei gesti che questo ci consente. Ne acquisiamo anche la dimensione immateriale, la sensazione e le emozioni che l’oggetto suscita e tutte le qualità intangibili che gli sono state infuse. La parola inglese brand indica, dopotutto, il marchio a fuoco che imprime una o più proprietà in un oggetto, trasferendo in esso un valore che è possibile trasmettere.
Questa trasmissione avviene all’interno di una relazione di consumo. Noi consumiamo gli oggetti. Sia nel senso che, adoperandoli, li usuriamo. Sia nel senso che, appropriandoci dei valori in loro impressi, costruiamo l’immagine che vogliamo dare di noi agli altri.
Gli oggetti rappresentano perciò consumo di estetica. Sono il mezzo attraverso cui consumiamo l’esperienza del bello, del morale, dell’autentico, del genuino, del professionale, dell’impegnato, dell’alternativo o di qualsiasi altro valore che vi venga in mente leggendo questo paragrafo.
Se possedessi il Set da Ping Pong James marchiato Louis Vuitton (prezzo al dettaglio 1500,00€) questo fatto, di me, cosa direbbe? Cosa direbbe del tipo di persona che sono se di Louis Vuitton possedessi anche la Corda per Saltare Christopher (prezzo al dettaglio 440,00€) o il Set da Jenga (prezzo al dettaglio previsto 1900£) che la maison francese ha annunciato verso la fine di febbraio di quest’anno?
Lascio a voi la risposta, il compito di fare un’ipotesi sul tipo di persona che darei l’impressione di essere se avessi abbastanza soldi da potermi permettere accessori di questo genere. La domanda a cui mi interessa rispondere è un’altra. Qual è l’estetica che consumerei se potessi possedere questi oggetti? Ha un nome, è possibile tracciarne la storia e quali sono le sue caratteristiche?
Creato dal creativo americano Virgil Abloh, il Set da Jenga Louis Vuitton rappresenta un movimento di quella tendenza a trasformare oggetti industriali di uso comune in prodotti di lusso in atto da ormai molti anni. Alla vista appare racchiuso in un parallelepipedo di plastica trasparente bianca, al cui interno si trovano cinquantaquattro mattoncini - anch’essi di plastica trasparente ma, a differenza dell’involucro, colorati - organizzati a tre a tre su diciotto file. I colori sfumano dal bruno sanguigno in basso fino all’azzurro acquamarina posto alla sommità del contenitore.
Lo osservo come osserverei un minerale precipitato dallo spazio. Quest’oggetto emana una vibrazione algida e glamour. Una frase affiora dal recesso della mente in cui l’avevo relegata: “ghiaccio sul mio polso, bling blow”. Si tratta di un verso della canzone Bello Figo Dark, contenuta nel disco The Dark Album, pubblicato nel 2016 dal gruppo trap romano Dark Polo Gang. All’epoca erano quattro, più il produttore Sick Luke. Oggi sono in tre. Se seguite X Factor è probabile li abbiate visti anche in televisione. Difficile non notarli. Nei video e sui palchi si presentano con un look abbagliante, talmente ricco e carico da sconfinare nel dominio del cafone. Tedua, un altro trapper piuttosto famoso, genovese, in un’intervista ha definito il loro stile “barocco” e nessuno ha avuto nulla da ridire.
Se domani pubblicassero una Instagram Story che li mostrasse intenti a divertirsi con il Set da Jenga Louis Vuitton non mi stupirei. Quell’oggetto, così consueto e al tempo stesso inaccessibile, è proprio il tipo di oggetto che il gruppo romano potrebbe finire a citare in una canzone. Una buona parte della poetica della Dark Polo Gang oscilla infatti tra la rivendicazione di un autentico e genuino vissuto da strada e l’ostentazione di tutto ciò che dal livello della strada si eleva verso l’empireo, seguendo la linea verticale della parete di un grattacielo, su su, fino ad arrivare in un attico in cima alla Trump Tower.
Ideologia minimalista
La crisi dei mutui subprime rappresenta l’evento che definisce l’immaginario degli anni dell’amministrazione Obama. Com’era accaduto dopo l’11 settembre, anche in quel periodo l’impressione era che il mondo come l’avevamo conosciuto stesse per finire. La capacità del capitalismo di contribuire al benessere globale veniva scossa e messa in discussione. Di fronte alle nuove generazioni si apriva un futuro in cui la logica terroristica precipitava il mondo in uno stato di guerra permanente, il lavoro perdeva progressivamente i suoi connotati di stabilità per farsi precario e delocalizzabile, mentre i cambiamenti climatici, pur iniziando a produrre regolarmente eventi catastrofici, apparivano ancora una dinamica reversibile. Di fronte a questo scenario, per continuare a legittimare la sua esistenza e le sue pretese di controllo, il Capitale raccontava la necessità di adattarsi per sopravvivere, piuttosto che combattere per modificarne l’inevitabile teleologia.
Questa ideologia prese il nome di minimalismo. Dato che sarebbero stati costretti a vivere in case sempre più piccole e costose per potersi permettere di frequentare i luoghi necessari a competere sul mercato del lavoro, i millennial, ovvero la generazione nata negli anni Ottanta, avrebbero sostituito l’accesso al possesso, si diceva. Poter avere a disposizione tutta la produzione culturale umana, ovunque e in un lasso di tempo quasi istantaneo, era la grande promessa e la sfida che la Silicon Valley lanciava alle vecchie strutture di potere gerarchiche e limitate.
L’estetica Apple - il touch&feel degli iPod, dei MacBook e, infine, degli iPhone - era l’orizzonte visivo di riferimento. Un orizzonte liscio, levigato, piatto, privo di spigoli, armonico, pacificato. Un orizzonte che in Europa ha preso il nome di “austerità” ed è finito infranto come la vetrina di un negozio di elettronica saccheggiato nella notte, durante le rivolte inglesi dell’estate del 2011. I millennial si erano accorti che i loro sacrifici non avrebbero portato redenzione al pianeta e avevano riscoperto il brivido di prendersi ciò che spettava loro. Il capitalismo non era finito. Il mondo non era cambiato. Ogni oppressione si era semplicemente ridisegnata lungo nuove traiettorie, ricodificata in nuove forme. Da quelle trasformazioni e da quelle ricodifiche è emersa la chioma radioattiva di Donald Trump.
Capitalismo barocco
Peter York è un critico culturale che ha passato molto tempo a capire quali sono gli elementi stilistici che accomunano le case dei grandi dittatori del nostro tempo e ha raccolto le sue osservazioni in un volume dal titolo Dictator Style: Lifestyles of the World’s Most Colorful Despotes. Secondo York, gli interni delle case segnalano tanto il modo in cui i loro proprietari vogliono essere visti quanto i loro riferimenti culturali e il modo in cui si relazionano alle persone. Le case dei dittatori non sono costruite per essere abitate, per diventare un rifugio in cui ritirarsi dal mondo insieme ai propri cari. Sono, invece, un mezzo architettonico e artistico usato per mostrare il potere di chi le abita e impressionare chi le frequenta.
Nel distillare gli elementi che caratterizzano lo “stile dittatoriale”, York compila una specie di decalogo. Ne fanno parte le dimensioni esteriori degli edifici, enormi e fuori scala; la riproduzione contemporanea di stili antichi; un costante riferimento alla Francia e al decoro dei grandi alberghi come epitomi del lussuoso; i materiali, in particolare l’oro, il vetro e il marmo. Chiudono la lista decori ed accessori. Anch’essi di grandi dimensioni, oscillanti tra il riferimento all’antichità e la novità più assoluta e sempre eccessivi, addirittura fantastici. Oppure feroci, come le molte statue di animali selvatici che sembrano essere un elemento costante nelle case dei despoti.
Tutti elementi che, come spiega l’autore in un articolo uscito nell’aprile del 2017 su Politico, si ritrovano nel gusto estetico di Donald Trump. Dictator chic, così York definisce lo stile del magnate diventato presidente con una piattaforma che mirava a ridare agli Stati Uniti la loro grandezza, supposta perduta. È lavorando a partire da questa osservazione che Toby Shorin, in un saggio pubblicato su Subpixel Space, elabora la categoria estetica di “capitalismo barocco”. L’intento è quello di provare a tracciare i confini di uno stile che è pura manifestazione fisica di denaro, uno stile che rifiuta le costrizioni formali del modernismo e le sostituisce con una fioritura di forme talmente complesse ed esondanti da risultare, alla fine, mostruose. Shorin porta, come esempio del massimo grado di questa tendenza, le architetture “sublimi” immaginate da Mark Foster Gage, che dal barocco esondano fino alle suggestioni art noveau.
Il “capitalismo barocco” sarebbe dunque l’estetica in cui meglio si esprime il dominio incontrastato del capitale, quando questo si presenta al suo massimo grado di accumulazione, come pura forza generativa ed espressiva, liberata da ogni vincolo e costrizione.
Il “capitalismo barocco” sarebbe dunque l’estetica in cui meglio si esprime il dominio incontrastato del capitale, quando questo si presenta al suo massimo grado di accumulazione, come pura forza generativa ed espressiva, liberata da ogni vincolo e costrizione. È una linea di sviluppo che prolunga la sensibilità varpowave – uno stile musicale ed estetico che rilegge suggestioni anni ‘80 e ‘90 nella chiave ironica, distaccata e vuota tipica della cultura internet – nell’usare le manifestazioni fisiche del capitale come un mezzo espressivo e che, secondo Shorin, è destinata a diventare l’orizzonte estetico di riferimento del prossimo futuro. Ma che aspetto potrà avere un futuro dominato dalla crescita inarrestabile delle manifestazioni fisiche del capitale?
Una partita a Jenga tra le ceneri di questo pianeta
L’estetica del “capitalismo barocco”, con le sue forme in perenne e inarrestabile crescita, pone un evidente problema di sostenibilità. In quanto manifestazione dell’accumulazione infinita del capitale, questo stile non può che entrare in contrasto con i limiti fisici del mondo all’interno del quale di manifesta. Questo contrasto si esprime nella capacità dell’uomo di dare forma all’ambiente che ci circonda con la stessa magnitudo di un fenomeno naturale. Non è un caso che, al netto dell’acceso dibattito che la definizione ha suscitato, il termine “antropocene” ha preso a essere utilizzato spesso per indicare l’epoca in cui viviamo, un’epoca in cui la capacità dell’uomo di influire su meccanismi planetari appare sempre più evidente.
L’antropocene, ci dice il filosofo Claudio Kulesko, è orrore speculativo. Ovvero una sfida lanciata a noi esseri umani, quella di poter dare vita a un pensiero del mondo che non ci comprenda, che sia esente dalla nostra presenza.
Cosa sarà dunque di noi, quando la crescita tumorale del capitale fisicamente manifestato avrà ricoperto l’intera superficie del pianeta con le sue forme? Non ci verrà data altra scelta che trasformarci in materia inorganica, melma grigia o cenere. Combustibile e residuo di quel consumo incessante di cui siamo, al tempo stesso, attori e soggetti e di cui non abbiamo ancora capito come interrompere il meccanismo. Sarà allora, quando non resterà altro, che, tra le ceneri di questo pianeta, affiorerà, beffardo, il Set da Jenga Louis Vuitton, testimone immobile e luccicante del trionfo assoluto del lusso sulla vita.