Nel 1959 al mezzanino del Seagram Building – il grattacielo modernista di 38 piani nel cuore della parte centrale di Manhattan – aprì i battenti il ristorante Four Seasons.
Un anno prima, con quella che era forse la commissione pubblica di più alto profilo mai assegnata a un pittore dell’Espressionismo astratto, Mark Rothko venne incaricato di creare una raffinata collezione di dipinti murali da appendere nella sala più esclusiva del ristorante.
Dall’autunno del 1958 fino all’estate seguente Rothko si dedicò completamente all’incarico. Ma non come si potrebbe pensare. Il direttore di Harper’s Magazine John Fischer, nella sua biografia dell’artista del 1970 racconta come Rothko non tollerasse l’idea che le sue opere fossero collocate in “un posto dove i più ricchi bastardi di New York vengono a mangiare e a mettersi in mostra”. Invece che rifiutare l’incarico Rothko si diede al sabotaggio, giurando di creare una collezione che avrebbe “rovinato l’appetito di qualunque figlio di puttana mangiasse mai in quella sala”.
Ispirandosi alle lugubri finestre cieche della Biblioteca Laurenziana di Michelangelo a Firenze, Rothko creò una serie di dipinti angosciosi. Basta con gli arancioni e i gialli delle sue opere precedenti: nacque una deprimente, smorta miscela di marrone, rosso sangue secco e nero. Rothko, disgustato dall’ambigua opulenza e dall’aria pretenziosa del ristorante, in seguito restituì l’anticipo e rinunciò all’incarico.
I proprietari del ristorante, assegnando l’incarico a Rothko, pensavano di ottenere il meglio che ci fosse sul campo. Ed era vero: Rothko era assolutamente un artista di primo piano. La committente, l’architetto Phyllis Lambert, diede a Rothko tutti i mezzi che gli occorrevano per lasciare un segno creativo in uno spazio battezzato dal critico del New York Times Herbert Muschamp “l’edificio del millennio”. Tutto era perfettamente predisposto. E invece il risultato finale fu un lavoro che non era utile né al creatore né al committente.
Fin dall’inizio il rapporto tra Rothko e Lambert mancò di intesa genuina. Le idee di Rothko non andavano d’accordo con quelle della committente.
Al rapporto mancavano una prospettiva comune, una passione reciproca e un interesse condiviso per quel che il progetto rappresentava e per come potesse riuscire. E alla fine il rapporto rimase privo di chimica genuina. Perciò il progetto ebbe poche possibilità di successo fin dal primo giorno.
La disavventura di Rothko al Four Seasons dimostra come il processo creativo fallisca se al rapporto tra creativo e committente manca un elemento vitale come la chimica. La chimica genuina, fondata sull’armonia personale e culturale di committente e agenzia, è il cuore dei rapporti di maggior successo. Per quanto ricchi di talento e lungimiranti siano i personaggi coinvolti, se i loro valori non sono allineati ad arrivare a una conclusione auspicabile per entrambe le parti è virtualmente impossibile. La mancanza di chimica può trasformare una collaborazione apparentemente promettente in un incubo tormentoso per tutti i partecipanti.
Coltivare un rapporto fruttuoso e soddisfacente significa guardare oltre i metodi oggi superati con cui le aziende scelgono le agenzie. Nell’ambiente globale ferocemente competitivo della creatività, le aziende vanno in cerca di qualcosa di molto più profondo del convenzionale rapporto cliente-fornitore. Vogliono collaborare con qualcuno che si schieri in battaglia accanto a loro. Qualcuno che li conquisti. Il cliente e l’agenzia devono essere disposti a scendere insieme in trincea, a combattere per un unico scopo. Devono condividere gli stessi valori, combaciare culturalmente ed emotivamente in ciò che fanno e nel modo in cui lo fanno.
Quando un’azienda cerca un creativo perché la sostenga con un progetto, d’istinto va a vedere il portfolio dei suoi lavori precedenti. La prassi normale spesso consiste in poco più di uno sguardo retrospettivo a quel che è successo in passato. Ma una prestazione trascorsa non è una garanzia di resa futura. Chi ci dice che le esigenze dei clienti che ci hanno preceduto fossero identiche alle nostre? Sempre più si scopre che l’elemento determinante del futuro successo è la chimica. Quelli che vanno d’accordo tra loro raggiungeranno insieme risultati straordinari molto più probabilmente di quelli che non vanno d’accordo.
Il curioso caso di Mark Rothko è l’esempio perfetto delle brutte conseguenze dell’assegnare incarichi ai creativi sulla semplice base della loro fama. Le aziende devono trovare un collaboratore di talento cui interessi lavorare con loro, non per loro. Questo senso condiviso dell’obiettivo è alla base della fiducia, così difficile da ottenere, intrinseca alla maggior parte delle collaborazioni di successo. Una buona chimica non è una garanzia di successo, ma i lavori veramente significativi raramente ne fanno a meno.
Preview image: Mark Rotkho, photo John Gevers