Al di là degli scherzi

Può una fiera commerciale di design essere sede di un discorso critico? Non sarà il design a risolvere i mali dell’umanità, ma i designer hanno la capacità di espandere la loro immaginazione per offrire qualcosa di più di semplici prodotti.

Nell’estate del 1968 si tennero manifestazioni per rivendicare i diritti delle donne, dei lavoratori, delle persone di colore e la non proliferazione delle armi nucleari, oltre a una miriade di altre cause progressiste. Fu un anno in cui anche il design divenne politico.
Nel maggio 1968 studenti, designer e critici occuparono la 14a Triennale di Milano, mostra periodica di architettura e design, in parte perché affermavano che rappresentava un potere autoritario che imponeva forme di produzione culturale non consone agli impellenti bisogni di una società in veloce cambiamento. L’accademia era impreparata, sostenevano. Analoghi proclami vennero lanciati alle edizioni dello stesso anno della Biennale di Venezia e, a Kassel, di Documenta.
Su Domus (466, settembre 1968) la recensione della Triennale di cui era responsabile Giancarlo De Carlo, accompagnata dalle infuocate fotografie di Ugo Mulas, affermava che a catalizzare la protesta era il carattere passivo delle edizioni precedenti: “Sono esplose tutte le ansie latenti delle precedenti edizioni, in cui la mostra si avviava ad essere un esclusivo spettacolo di concetti, (o di preconcetti), che presentavano problemi privi di soluzione, retto principalmente dalle invenzioni nel linguaggio”. La storica Paola Nicolin colloca la mostra del 1968 a un bivio: la società industriale avrebbe proseguito sulla traiettoria consumistica del dopoguerra, oppure quella concezione sarebbe collassata a favore di una società più immaginativa in cui il progetto avesse un ruolo? Non è possibile esprimere un giudizio generale sull’incidenza della protesta del ’68, sulle sue voci e sui suoi risultati. Farlo significherebbe contraddire l’intenzione dei suoi molteplici messaggi. Ma uno dei risultati importanti fu che aprì uno spazio alla critica della cultura.

 

Per la disciplina del design il Salone del Mobile può rappresentare uno spazio di questo genere? Per suscitare sommosse di piazza a questa annuale fiera commerciale basta poco più della prospettiva di gin, vermut e Campari gratis, ma quest’anno una manciata di manifestazioni fuori Salone è uscita dalla mischia per parlare criticamente dei rapporti del design, talvolta insostenibili e iniqui, con gli schemi di espansione dei consumi del marketing, mentre altre manifestazioni hanno proposto soluzioni a questi problemi attraverso nuovi modi di produzione. Oggi gli steccati sono alti come nel ’68.

In un’epoca in cui la polemica populista latra senza tregua dalle televisioni satellitari e la politica si modella di conseguenza, occorre un sussulto critico per ridare consistenza al fondamento generale dei diritti umani, dei diritti civili e della politica ambientale che la generazione più giovane considera garantiti. Ovviamente non sarà il design a risolvere i mali dell’umanità, ma i designer hanno la capacità di espandere la loro immaginazione per offrire qualcosa di più di semplici prodotti. Per molti solo scoprire una voce critica è una novità, e in uno spettacolo commerciale come il Salone, nutrito da centinaia di migliaia di euro di sponsorizzazioni e di collaborazioni di marchi multinazionali, queste voci spesso risultano soffocate. Ma non sono completamente silenti.

Le voci più stridenti forse quest’anno sono venute dalla Design Academy di Eindhoven. Nel secentesco Palazzo Clerici, un tempo proprietà di una delle più ricche famiglie milanesi, studenti ed ex studenti hanno trasformato una delle più grandiose e decorate sale barocche in uno studio televisivo in piena attività, battezzato #TVclerici. L’alto soffitto di questo spazio a stento conteneva lo schermo centrale, che fungeva da sfondo alle performance dal vivo a cura di Jan Boelen, direttore dei Master presso il dipartimento di Design sociale della scuola. Studenti ed ex studenti rappresentavano, riprendevano, producevano e trasmettevano performance dal vivo sul loro sito web. I visitatori potevano sedersi sulla gradinata di fronte allo schermo e far parte del pubblico dello studio, gironzolare dietro le quinte, oppure osservare la trasmissione sulle file di monitor installati nella “sala regia”.
All’inaugurazione l’atmosfera era febbrile, frenetica, fitta di attività precise. I visitatori schivavano al volo i partecipanti che correvano da un’incombenza all’altra nella debole luce, stando attenti a non calpestare i cavi serpeggianti sul pavimento. All’inizio della prima performance Boelen ha preso il microfono e si è rivolto ai partecipanti: “Non c’è nulla che possa andare storto, perché è tutta vita. Nella vita tutto è imprevedibile. Tutti lo vedranno, fa parte dello spettacolo”. Certo ci sono stati degli inciampi e qualche scivolone della produzione nel primo quarto d’ora di spettacolo in diretta, ma queste imperfezioni non hanno fatto che sottolineare il carattere iperprogettato del mondo dei media dominanti che #TVclerici cercava di parodiare: un abilissimo, commerciale linguaggio vernacolare che molti, secondo la tesi della rappresentazione, cercano di imitare nella vita quotidiana. Quanto si può essere affascinanti su Instagram, in un consiglio d’amministrazione oppure a un cocktail? Forse dipende da quanto si assorbe e si riesprime il tono scherzoso che accomuna i talk show del mattino, che gli ospiti che si alternavano su @TVclerici parodiavano tra un segmento di produzione e l’altro. La televisione ha progettato i personaggi di magnati mediatici come Berlusconi e Trump. Può progettare anche te.
Louis De Belle, But It Used to Be So Cool, veduta della mostra, Cascina Cuccagna 2017
Louis De Belle, But It Used to Be So Cool, veduta della mostra, Cascina Cuccagna 2017
In una delle trasmissioni Olle Lundin ha affrontato il ruolo delle riviste nel progettare il corpo ‘ideale’. Il designer ha individuato alcune delle pose e degli atteggiamenti più ripetuti nell’editoria di moda e ha contorto il suo corpo per imitarli: una contrapposizione caricaturale, a quattro zampe con il posteriore in evidenza e varie altre posizioni sessualizzate totalmente innaturali. L’assurdo balletto ha acceso i riflettori sui meccanismi usati per mercificare il corpo, lo stesso modo di atteggiarsi fatto su misura per i media che gli influencer adottano per crearsi sbrigative e lucrative carriere di modelli su Instagram e su altre piattaforme dei social media. In Second Skin Nadine Botha, Louisa Zahareas, Virag Motesiczky e Marie Caye hanno trasferito di peso questa analogia al registratore di cassa: i visitatori online di Second Life Marketplace potevano acquistare una nuova rappresentazione del proprio corpo progettata dal gruppo per essere usata in Second Life, l’universo digitale alternativo.
Isabel Magee e Gabriel Ann Maher hanno affrontato di petto l’anima commerciale del Salone. In Salone del Mobile: An Empty Orchestra (“Salone del Mobile: un’orchestra vuota”), segmento video di #TVclerici, i designer hanno riproposto il linguaggio, l’immaginario e la musica del sito web del Salone del Mobile per creare una spiazzante fantasia d’arredamento. Immagini di lavelli da bagno domestico, specchi, cassettoni e divani fotografati su fondo bianco si alternavano sullo schermo in frenetica successione mentre una colonna sonora di musica elettronica di repertorio scandiva il sottofondo, accompagnata dalla monotona lettura degli ampollosi testi del sito risistemati in una demenziale recita poetica sulle spropositate prospettive che l’arredamento realizzerebbe per il consumatore. Il risultato era la sensazione che molti visitatori del Salone ammettono di provare all’uscita dai padiglioni della Fiera: le cose sono davvero troppe.
L’assenza delle cose ha ispirato la campagna di comunicazione progettata da Giga Studio per la mostra di Raumplan, Capitalismi is Over (“Il capitalismo è finito”), allestita al centro dell’alimentazione-ristorante di Cascina Cuccagna, nella zona sud-est di Milano. Gli still-life fotografici di Louis De Belle mostravano normali interni fortemente illuminati con oggetti-simbolo del design – come la radio portatile TS502 “Cubo” di Marco Zanuso e Richard Sapper, del 1964, e l’attaccapanni di Ettore Sottsass della collezione Synthesis per Olivetti – espunti dalla fotografia e rappresentati solo da un profilo disegnato. Se sparissero ci mancherebbero davvero? La tesi della mostra affrontava allo stesso modo il tema dell’assenza: come cambierebbe il design se il capitalismo scomparisse? Raumplan, gruppo milanese composto da architetti, da designer e da un filosofo, intendeva mostrare delle alternative alla produzione e al consumo del design attraverso questa mostra generalista che comprendeva i prodotti di alcuni designer, fotografie appositamente commissionate e alcune installazioni concettuali.

 

Metà del nucleo centrale della mostra era rappresentata dalla collezione fotografica But It Used to Be So Cool (“Ma com’era bello”). Louis de Belle ha realizzato un servizio fotografico sull’ex sede direzionale del settore macchine da scrivere e telecomunicazioni della Olivetti, il vasto complesso di Ivrea che, oltre alla sede amministrativa e a vari stabilimenti di produzione, comprendeva anche abitazioni e servizi sociali per i dipendenti. All’epoca il comportamento della Olivetti veniva celebrato come un esempio di come un’azienda potesse fare il bene dei dipendenti grazie al buon design. Una strategia di base in aperto contrasto con quella della Fiat, i cui sgangherati impianti e le cui carenti condizioni di lavoro suscitarono a Torino la contestazione dei lavoratori nell’“Autunno caldo” italiano del 1969-70. Le crude, freddamente documentarie fotografie di De Belle della sede Olivetti oggi mostrano come certi elementi del progetto, come il complesso per lo sport e il tempo libero progettato nel 1953 da Ignazio Gardella, siano umili monumenti a una forma di capitalismo più comprensivo.

Ma nel XXI secolo la situazione della vita collettiva è più complessa della sua semplice identificazione con quella del singolo dipendente. L’installazione di Åyr Homes for Queers London and Surrounding (“Case della Londra anticonvenzionale e dintorni”) occupava una delle stanze di Cascina Cuccagna con una performance sonora che recitava gli annunci pubblicitari trovati sulle piattaforme per la condivisione di abitazioni non convenzionali. Dall’ascolto si delineava il ritratto di un gruppo nomade profondamente articolato intento a descrivere se stesso e il suo stile di vita. I suoi membri possiedono una profonda coscienza di sé unita a un’idea ricca di fantasia di spazi di vita comunitaria creati da idee e valori condivisi che si pongono al di fuori delle regole ispirate al mercato delle abitazioni destinate ai nuclei familiari. In sostanza progettano gli spazi attraverso una descrizione. Due tipi di sedute morbide punteggiavano il pavimento dell’installazione: trasparenti cuscinetti a bulbo gonfiabili, che si possono sgonfiare e portare con sé negli spostamenti, insieme con alcuni altrettanto portatili CritBuns, corpi di espanso dotati di maniglie che Joseph Gebbia, cofondatore di Airbnb, ha progettato per sedersi comodamente sul pavimento. Queste semplici forme si adattano bene all’atteggiamento non aggressivo e confortevole che si esprime nella parte sonora, in una specie di brief di progetto che potrebbe averne ispirato la creazione.
In città il colosso tessile Kvadrat ha reimmaginato come potrebbe rimediare ai suoi crescenti problemi di scarti. L’industria tessile è una delle più inquinanti del mondo. Textile Exchange, l’organizzazione internazionale senza fini di lucro per la sostenibilità dell’industria tessile, stima che il 95 per cento degli scarti mondiali del settore tessile potrebbe essere riciclato, ma che solo il 25 per cento trovi realmente un nuovo uso. Il resto viene gettato in discarica o incenerito. Kvadrat ha valutato criticamente il flusso dei suoi scarti e ha chiesto la collaborazione di Really, all’avanguardia nell’ingegnerizzazione e nella produzione del Solid Textile Board, materiale per pannelli rigidi e riciclabili fatto con il riuso degli scarti di Kvadrat. Oggi Kvadrat possiede una partecipazione di maggioranza in Really e intende produrre e commercializzare questi pannelli come nuovo materiale lavorabile per l’edilizia e per le industrie del design. Il designer Max Lamb ha accettato la sfida di lavorare con questo materiale per la prima collezione d’arredamento, Solid Textile Board Furniture. Ha creato una collezione minimalista di dodici panche che dimostra la durata del materiale e la sua notevole adattabilità, un esempio di come la fantasia possa contribuire a nutrire l’economia circolare.
In Olanda Petra Janssen e Simone Kramer si sono concentrate su una diversa risorsa sottoutilizzata: il lavoro. Hanno creato Social Label con lo scopo di dare lavoro nell’industria del design ai membri di comunità svantaggiate. Designer come Piet Hein Eek e Roderick Vos, tra gli altri, lavorano a stretto contatto con i dirigenti di vari gruppi di intervento sociale olandesi, i cui membri spesso vengono tenuti lontani dal mercato del lavoro. Insieme creano prodotti esclusivi che i lavoratori di recente assunzione sono in grado di costruire giorno per giorno e poi di commercializzare. A Milano i membri di vari laboratori hanno presentato in azione all’Isola questo processo creativo. Il designer Edwin Vollebergh, con lo Studio Boot, ha collaborato con il gruppo Cello per creare una collezione di piatti di ceramica con decorazioni grafiche che gli artigiani hanno trasferito sui piatti nella serata inaugurale della presentazione. L’impegno di Janssen e Kramer dimostra come i designer possano creare prodotti commerciabili creando al contempo anche capitale sociale. In questo modo l’obiettivo di Social Label costituisce anche una sfida per i consumatori, perché prendano in considerazione il valore del design generato dal servizio alla società.
L’anno prossimo sarà il cinquantenario del 1968, che porterà anche una nuova edizione della Triennale. Se la disciplina, da qui ad allora, seguirà altri esempi simili a quelli di Social Label, forse non ci sarà bisogno di gesti radicali per rivendicare valori di maggior sostenibilità e maggiore inclusività nella creazione di un nuovo design. Nel suo aspetto più fecondo il design è intrinsecamente critico. “I designer sono critici della cultura, della tecnologia e della società”, ha affermato Dieter Rams nel suo fondamentale saggio Omit the Unimportant. E allora perché non dedicare più attenzione critica al Salone? La carenza di analisi e indagini solide rischia di lasciar continuare la proliferazione di un design inteso come spettacolo differenziato solo dalla propria iperamplificazione. Se la retorica politica fa presto a raggiungere questo culmine forse i designer hanno bisogno di metterla a confronto con una voce collettiva, non con quella più forte.
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