È come se sulla scena la luce si fosse abbassata di colpo. E uno spazio che prima era il nocciolo e il cuore in fibrillazione della vita dell’edificio multipiano stesse ora perdendo battiti in una lenta crisi cardiaca.
Forse non c’è più la portineria: è il sospetto che ci viene e che ci ripetiamo distrattamente, ma sempre più frequentemente, ogni volta che attraversiamo uno di questi condomini, prima d’imboccare la porta del vano scala o quella dell’ascensore.
Un pannello a tutta altezza o uno sportello chiuso, appena dietro l’originario vetro, tappano definitivamente un varco o un finestrino passante che hanno segnato per un secolo e mezzo la dimora del portinaio. Senza più il perno e la regia di questo locale, quello che prima era il sagrato interno del condominio diventa ora uno spazio dove gli elementi di contatto e di scambio s’indeboliscono, come un grande disimpegno vuoto e muto.
È il condominio urbano che ha generato la portineria costruendo nell’atrio tutte le sfumature di una cultura dell’abitare. Dal punto di vista spaziale essa orchestrava un luogo che era un po’ hall di teatro e un po’ hall d’albergo, quella zona indefinita dei “passi perduti” dove, come in un piccolo foro, potevano accadere incontri. Dal punto di vista comportamentale, era invece un palcoscenico dove convogliavano le espressioni più alte e più basse della civile convivenza. All’inizio, la portineria è un tutt’uno con l’androne su cui si affaccia la guardiola: è una finestra su un transito a garantire un attraversamento controllato (nell’hotel particulier è ancora un corpo autonomo distaccato sul fronte stradale).
È proprio l’Ottocento con la casa d’affitto a ingabbiare il portinaio e a irreggimentarlo in uno spazio così limitato che sembra la garitta militarizzata del soldato. Il cinismo della rendita d’affitto non gli concede spazio più di tanto e i 2 x 2 m degli alloggi haussmaniani di seconda classe devono bastare (talvolta nelle case d’affitto parigine questi spazi vengono ricavati nel sottoscala, nei punti che col tempo diventeranno gli sgabuzzini delle scope). Il concierge è prima collocato nell’androne, poi guadagna spazio in cortile, quindi, non appena compariranno gli ascensori e si moltiplicheranno i vani scala, verrà inglobato nell’atrio interno. E allora verranno fuori per lui i 30, i 40, i 50 m2 di un alloggio quasi reale.
Dal buio cavernoso della portineria Liberty e dal cemento graffiato delle sue pareti, in cui emerge solo la luce lontanissima della pasta di vetro giallo-blu del lampadario, si passa alla vetrina chirurgica razionalista dove i m2 a disposizione aumentano al punto che tanto spazio luminoso domanda a gran voce arte, decorativa o muraria che sia. Così l’opera d’arte invade l’atrio come è accaduto a Milano: Lucio Fontana in via Donizetti 24 con un grande pannello in cemento graffito bordato da luci al neon o il suo grande Torso Italico del 1938 di via Panizza o, ancora Fontana, nei maniglioni in ceramica di via Senato nel palazzo angolare di Marco Zanuso e Roberto Menghi. Arte anche sul soffitto, con l’opera di Antonia Tomasini nella casa di Minoletti in via Fatebenefratelli, o il ‘solito’ Caccia Dominioni che mette attorno alla portineria vortici e gorghi, disegnati a pavimento da Francesco Somaini con la tecnica del seminato. È il culmine di uno spazio oramai “alto di gamma” che negli anni Sessanta spinge il portinaio al centro della scena con i jamesbondiani e kubrickiani quadri di comando a semicerchio, da Dr No o Dottor Stranamore, che collocano il portinaio alla consolle, panopticon moderno, arricchito dalle prime telecamere fisse. E tutt’attorno il salotto nella forma di un ring di divani che non attendono altro che la discesa di qualcuno dai piani alti: la hall d’albergo catapultata nel residenziale.
Oggi, una dopo l’altra, chiudono portinerie e centralini a favore di schede elettroniche, controlli a distanza, bip e SMS collegati a società di servizi antintrusione che inviano segnali di esistenza da luoghi senza volto. L’ambiguo gioco del palesarsi quando volevamo farci cercare, dello sgattaiolare via, del sottrarsi, oggi sì domani no, del dosare domande, dello schivare buste, si va affievolendo (chi raccoglierà le informazioni della casa, quelle informazioni spicciole che non passano nella Rete?). Quel senso di presenza cronometrica dato da una portineria sempre illuminata, dove sulla tavola fumavano piatti già alle otto del mattino, quella piccola macchina abitativa, vivrà ancora?
Ancora per un po’ resistono gli odori che configurano la portineria in nuovi fritti orientali o in strascichi dolciastri di kebab provenienti da cucinotti ove albergano pesci dello Sri Lanka o manghi delle Filippine, a suggerire uno spazio esotico e distante.
La portineria è stata una zona cuscinetto tra lo spazio pubblico e quello privato, uno spazio più privato che pubblico che svolgeva un filtro fondamentale come camera di decompressione nei confronti del mondo al di fuori. Ma il suo progressivo declino è solo un altro modo di porre il problema della destinazione futura dei piani terra degli edifici multipiano.
Cosa ospiteranno da qui in avanti? Ci sarà ancora del commerciale nello zoccolo? Resisteranno solo gli uffici pur dimezzati? L’e-commerce svuoterà i piani terra di molte delle loro funzioni commerciali, o almeno ridurrà il mix multifunzionale che prima teneva vivo e ricco questo spazio appiattendolo in tante probabili società di servizi (e tutti sanno quanto i servizi possano essere non-spaziali) Si ha l’impressione che le funzioni abbiano sempre meno bisogno di tradursi tridimensionalmente in spazi caratterizzati o tipizzati. E che alla fine si salvi, da tutto questo, solo la residenza che sta ai piani superiori, con tutta la sua complessità e imprevedibilità di rapporti, con tutte le sue oscillazioni più o meno spiegabili, parte delle quali rimanevano impigliate nella rete a maglie strette della portineria.