Urbanicidio a fin di bene

Un killer seriale di città si aggira per il pianeta. Si chiama UNESCO. La sua arma letale è l’etichetta “Patrimonio dell’umanità”. Con questo marchio dissangua e imbalsama villaggi gloriosi, metropoli millenarie, sottraendo il tempo al naturale divenire.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 982 / luglio–agosto 2014

È straziante assistere all’agonia di tante città. Città gloriose, opulente, frenetiche, che per secoli, e a volte per millenni, erano sopravvissute alle peripezie della storia, a guerre, pestilenze, terremoti. E che ora, una dopo l’altra, avvizziscono, si svuotano, si riducono a fondali teatrali su cui si recita un’esangue pantomima. Ove un tempo ferveva la vita, e umani scorbutici e frettolosi si facevano largo a gomitate nel mondo e si calpestavano e spintonavano, ora fioriscono paninoteche, bancarelle – ovunque uguali – di prodotti tipici, di mussoline, batik, cotonine, parei e braccialetti. Quella che era una vicenda piena di grida, strepiti e furori, ora è tutta racchiusa in un prospetto d’agenzia di viaggio.

A decretarne la morte basta un verdetto, al termine di una trafila burocratica, emesso da un edificio parigino. L’edificio si trova a Place Fontenoy, nel settimo arrondissement. Questo verdetto è un label indelebile, un brand che, come dice il termine, ti marchia (a fuoco) per sempre.

Parlo dell’etichetta di “Patrimonio dell’umanità” (in inglese, World Heritage) rilasciata dall’UNESCO. Il tocco dell’UNESCO è letale: dove appone il suo label, letteralmente la città muore. È sottoposta a tassidermia.

Questo vero e proprio urbanicidio (brutta parola, ma sempre meglio dell’orribile ‘femminicidio’) non è perpetrato di proposito, anzi, è commesso in perfetta buona volontà e buona fede, per preservare (appunto) un ‘patrimonio’ dell’umanità. Ma, come dice la parola, preservare vuol dire imbalsamare, o surgelare, risparmiare dall’usura e dalle cicatrici del tempo: vuol dire, letteralmente, fermare il tempo, fissarlo come in un’istantanea fotografica, sottrarlo quindi al cambiamento, al divenire.

Il dilemma urbanistico offerto dall’UNESCO è ostico. Certo che vi sono beni che vanno tutelati e protetti, ma è anche vero che, se nel 450 a.C. avessero protetto l’Acropoli di Atene come era allora, non avremmo né i Propilei, né il Partenone, né l’Eretteo. L’UNESCO avrebbe starnazzato inorridito di fronte alla Roma del Cinquecento e del Seicento che ha prodotto quell’ammirabile pot-pourri di antichità, Manierismo e Barocco. Meno male che il Marais di Parigi non era stato dichiarato World Heritage, altrimenti il Beaubourg ce lo saremmo sognati. Va trovato un equilibrio tra costruire e preservare: noi volevamo vivere in città che includessero musei e opere d’arte, non in mausolei con annesso dormitorio: è condanna inumana spendere tutta la propria vita nella foresteria di uno sterminato museo. Sono tornato dopo trent’anni a San Gimignano: dentro le mura non c’è più un macellaio, un verduraio, un panettiere vero. D’altronde, in centro, dopo l’ora di chiusura di bar, ristoranti e negozi di souvenir, non resta più a dormire nessun sangimignanese: abitano tutti nei moderni condomini
fuori mura, vicino ai centri commerciali. Dentro le mura, tutto è diventato un unico set cinematografico di un film medievale, in costume, con gli inevitabili prodotti di una “invenzione della tradizione” a uso commerciale. Più piccola è la città, più rapido l’urbanicidio.

E non solo in Italia. In Laos, Luang Prabang ha subito la stessa sorte e ormai il suo centro storico è un residence per turisti, le case tutte adibite ad alberghi e ristoranti, con il solito mercatino che vende – come ovunque nel mondo – collanine, borse di tela, cinture di cuoio. Per trovare dove vivono davvero i laotiani, bisogna pedalare in bicicletta per un paio di chilometri su Phothisalath Road, oltre Phu Vao Road.
Se passeggiate a Porto, in Portogallo, percepite subito l’invisibile frontiera dell’area dichiarata World Heritage: la variegata, eterogenea umanità che compone il tessuto urbano d’incanto cede il posto a una monotona monocultura di locandieri, tavernieri, camerieri a caccia di clienti riconoscibili dagli scarponcini da trekking indossati in città, gli orribili pantaloncini corti a scoprire gambe pelose (chissà perché gli umani in missione turistica si sentono legittimati a vestirsi come mai farebbero a casa?). Così che il brand “Patrimonio dell’umanità” funziona come diploma ideologico dell’industria alberghiera, rappresenta il volto dotto e umanitario della planetaria macchina turistica. Con due aggravanti. La prima è quel che potremmo chiamare “integralismo cronologico”, o “fondamentalismo temporale”, per cui è più meritevole di conservazione ciò che risale a un tempo anteriore. Per il fatto d’interessare un manufatto di mille anni precedente, lo scavo di un muretto di epoca romana giustifica la manomissione di un magnifico chiostro medievale (come è avvenuto nella cattedrale di Lisbona). La seconda aggravante è di ordine filosofico generale: poiché l’UNESCO moltiplica i “Patrimoni dell’umanità” e poiché l’umanità continua a produrre opere d’arte (si spera), se dopo 2.000 anni già siamo immobilizzati da tanti ‘retaggi’, che cosa accadrà tra 1.000 o 2.000 anni? Andremo a vivere tutti sulla Luna e compreremo biglietti per una visita sulla Terra?

Nei 759 patrimoni culturali sono incluse 254 città. La maggioranza assoluta di queste “città d’arte” è situata in Europa

Ricordiamo infatti come è andata: nel 1972, dopo parecchi anni di discussioni, la Conferenza generale dell’UNESCO adottò la “Convenzione sul patrimonio dell’umanità” che a tutt’oggi (2014) è stata adottata da 190 Paesi. Nel 1976, fu creato il Comitato del patrimonio dell’umanità che nel 1978 identificò il primo sito e, dopo 38 sessioni ordinarie e 10 straordinarie, nel 2014 ha definito 981 siti in 160 Paesi. Di questi “Patrimoni dell’umanità”, 759 sono culturali, 193 naturali e 29 misti. Nei 759 patrimoni culturali sono incluse 254 città (intere o in parte, solo un quartiere o il centro storico). La maggioranza assoluta (138) di queste “città d’arte” è situata in Europa. A sua volta, quasi la metà delle città d’arte europee si trova in quattro soli Paesi: Italia (29 città d’arte, comprese Città del Vaticano e Repubblica di San Marino), Spagna (17), Francia e Germania (11 ciascuna). Vista anche la sua superficie abbastanza ridotta, l’Italia è il Paese al mondo a più alta densità di “Patrimoni dell’umanità”.

Il fatto è che la marchiatura non ha sosta. Uno direbbe che ormai quel che c’era da dichiarare ‘patrimonio’ in un Paese così pieno di storia come il nostro doveva essere già stato marchiato. E invece no: procedendo per decenni, negli anni Settanta in Italia un solo sito era stato dichiarato patrimonio dell’umanità; negli anni Ottanta se ne aggiunsero 5; negli anni Novanta ci fu la grande esplosione con 25 nuovi Heritages, ma anche nel primo decennio del nostro millennio ne sono stati etichettati altri 14, e ulteriori 6 nei primi quattro anni di questo decennio – per un totale di ben 51 siti, tra naturali e artistici.

È tragico che città, paesi e regioni facciano la coda e brighino per farsi imbalsamare. Come quei Paesi che si candidano per ospitare le Olimpiadi, ignari di segnare la loro rovina che li trascinerà nel baratro (vedi Grecia), così i nostri sindaci, assessori e ProLoco si affannano per ottenere l’agognato marchio. Siamo terrorizzati dalla prospettiva del nostro Paese ridotto a un unico immenso museo, in cui dovremo camminare pagando il biglietto d’ingresso, cercando disperatamente una via d’uscita. Gireranno il film Fuga dal museo per respirare una boccata d’aria, una botta di vita, vedere città che cambiano, prima di tornare nella naftalina.

© riproduzione riservata

 

Marco d’Eramo è nato a Roma nel 1947. Per due anni è stato ricercatore di fisica teorica all’Università di Roma, poi a Parigi ha studiato sociologia con Pierre Bourdieu. È stato a lungo inviato speciale de Il manifesto negli Stati Uniti. Tra i suoi libri, Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1995, tradotto in varie lingue e adottato in molti corsi di urbanistica.

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