It looks like the end of history, as you know
It's just the end of the world
Back to the street where we began
In Back to the Streets, di Panic! At the Disco
Un anno fa una straordinaria immagine giornalistica ha dato grande risalto alla culla simbolica, anche se inesatta, della democrazia europea. Lungo le mura dell'Acropoli di Atene una folla alzava un gigantesco striscione con l'invito "Popoli dell'Europa ribellatevi!". Era un messaggio fotografato e filmato da una certa distanza e destinato a essere diffuso in tutto il mondo. Sei mesi dopo in Nordafrica, più che nella viziata Europa, la gente si è dimostrata all'altezza della sfida. La motivazione era simile: sconfiggere il despotismo di programmi di austerità ingiusti provocati dalla crescente disuguaglianza e dalla corruzione, dall'inefficienza dello stato e dall'avidità finanziaria. Gli europei non hanno comunque abbandonato la strada. Le manifestazioni di piazza sono continuate ad Atene, Madrid, Bruxelles e Londra. L'intellighentsia olandese, troppo compita per scendere in strada, ha occupato il cortile di un museo per protestare contro i tagli di bilancio alla cultura. A Lisbona 300.000 persone si sono radunate in piazza, determinando, come raramente avviene, le dimissioni del governo due settimane dopo.
Proprio in quel periodo, durante la mia ultima visita alla libreria del Palais de Tokyo a Parigi, sono rimasto colpito dal punto raggiunto da un'inarrestabile tendenza. L'arte di strada ha definitivamente avuto la meglio. La maggiore esposizione è riservata ai libri sui graffiti, sull'intervention art, sullo skateboarding e sull'hacking urbano, mentre le altre espressioni artistiche ricevono poco spazio. Lo si può verificare in qualsiasi centro di divulgazione culturale degno di questo nome. Proprio nello stesso periodo Banksy è riuscito a trasmettere la sua sovversiva ironia nei cinema di tutta Europa. Nel mondo dell'architettura l'infallibile Bjarke Ingels ha adottato la pratica parkour per pubblicizzare uno dei suoi edifici. Nel volume Urban Maps[1] di prossima pubblicazione gli studiosi Richard Brook e Nick Dunn sostengono che gli architetti dovrebbero tracciare una cartografia completamente nuova delle influenze che le diverse pratiche di strada esercitano le une sulle altre nella loro continua evoluzione.
Questo clima mi porta a sostenere che gli architetti devono veramente tornare rapidamente per strada. E con questo non intendo dire né farsi licenziare né inseguire, sulle orme di Jane Jacobs, la sua promessa di vita di strada idilliaca. Jacobs ebbe il merito di riaffermare il ruolo delle strade come fonte di un'essenziale diversità[2], un'idea successivamente rielaborata da Sharon Zukin che, con maggiore acume, ha visto nelle strade i "mezzi di riproduzione" tanto della differenza quanto dell'esclusione[3]. Dopo il 1968 le strade sono divenute molto più complicate di come erano state descritte da Jacobs. Da quando venne violentemente riportata alla luce la sabbia sotto la pavimentazione haussmanniana le strade sono state ripetutamente segnate da altri attriti sociali, ridiventando il palcoscenico di spontanee rivendicazioni politiche. Da allora generazioni di artisti hanno continuato ad allontanarsi da collocazioni istituzionali, intervenendo direttamente nell'arena della strada.
Quando si va in giro in macchina per le megalopoli africane o sudamericane, si riceve il consiglio di utilizzare vetture con vetri antiproiettile. Come accade quando ci rifugiamo all'interno dei nostri condomini, ci corazziamo contro le strade, mantenendo in questo modo una distanza psicologica da una realtà divenuta insostenibile. Quando gli architetti restano chiusi nella relativa sicurezza dei loro studi o dei palazzi dei loro clienti -o, magari, in quella delle torri d'avorio dell'università- mantengono un analogo atteggiamento di negazione della realtà. Ma poiché l'architettura è parte dell'avanguardia economica e quelle situazioni rappresentano l'aspetto più fosco del nostro probabile futuro, molti architetti, specialmente quelli più giovani, si troveranno presto in strada. Ed è meglio che si adattino a questo probabile scenario, come peraltro stanno già facendo, sia impegnandosi in azioni umanitarie a livello globale sia, in ambito locale, in modi meno noti e apprezzati, cioè comportandosi come veri monelli per mezzo della performance architecure[4].
Jane Jacobs ci esortava a tornare nelle strade con "una minima irregimentazione progettuale e una massima economia di mezzi e tattiche".[5] In una fase in cui i governi abbandonano le strade e altre infrastrutture[6] e l'architettura si vende al consumismo, è ora che gli architetti osino qualcosa di nuovo nel loro legame eternamente incestuoso con l'arte, esplorando, come alcuni di loro già fanno, l'eredità critica della performance art. Molto prima che i monumenti dell'arte pubblica fossero sussunti dall'emersione dell'arte di strada, la performance art fu, sotto molti punti di vista, la prima avanguardia a investigare la dimensione politica della strada. E i suoi insegnamenti -dai veicoli senza fissa dimora di Wodiczko alle strutture abusivamente invase di Matta-Clarke, dagli abitacoli corporei di Lucy Orta alle occupazioni urbane di Trisha Brown- sono fonti d'ispirazione per una generazione che crede nelle azioni urbane transitorie mirate alle comunità piuttosto che in duraturi monumenti ai poteri costituiti.
Si pensi alle prime opere di Stalker e Diller & Scofidio. Si pensi alle pratiche di Didier Fiuza Faustino, Santiago Cirugeda, A77, Raumlabor, Exyst, Coloco, Office for Subversive Architecture, per fare soltanto qualche nome, e si capirà di che cosa sto parlando. Se oltre alle imprese dei proliferanti "collettivi" si prendono in considerazione anche i recenti sviluppi della teoria critica, della cultura open-source, dell'intervention art o dell'hacktivismo, si può dare all'architettura una cornice di riferimento concettuale che le consenta di riguadagnare un significato politico al di fuori dei confini sempre più sorvegliati dell'edilizia tradizionale. In un clima di guerriglia sociale gli architetti scenderanno in strada per raggiungere obiettivi più ambiziosi con i mezzi più modesti di sempre. L'antica parola d'ordine del modernismo sarà oggi solamente un radicale strumento di sopravvivenza. Come già accaduto nella lotta contro la fine del minimalismo e la concezione di una società senza attriti[7], la forma cercherà non soltanto la finzione, ma anche l'attrito. I veri architetti dovranno trasformarsi non soltanto in versatili produttori di cultura e programmatori quotidiani [8] della città. Devono anche diventare veri esperti della strada.
[1] Vedi Richard Brooks and Nick Dunn, Urban Maps, Instruments of Narrative and Interpretation in the City, Ashgate, London: 2011
[2] Vedi Jane Jacobs, (1961), The Death and Life of Great American Cities, Penguin, London, 1994 (tr.it. Vita e morte delle grandi città: saggio sulle metropoli americane, Einaudi, Torino, 1969)
[3] Vedi Sharon Zukin, The Cultures of Cities, Blackwell, Oxford, 1995, p. 247
[4] Vedi Pedro Gadanho, Architecture as Performance, in Dédalo #02, March, Porto, 2007. Una traduzione inglese è disponibile all'indirizzo http://shrapnelcontemporary.wordpress.com/archive-texts/architecture-as-performance/. Vedi anche l'articolo "Bordering on the illegal - The performance architecture of Didier Fiuza Faustino" che apparirà nel catalogo della mostra Salons d'IFA su Faustino alla La Cité de l'Architecture et du Patrimonie, Paris
[5] Vedi Jane Jacobs, op.cit., p. 403
[6] Uno scenario analogo compare anche nel racconto ammonitorio di Bruce Sterling di "White Fungus" "in Pedro Gadanho (ed.),Beyond #01, Scenarios and Speculations, Sun Architecture, Amsterdam, 2009
[7] Vedi Marteen Hajer, "Zero-Friction Society, in Urban Design Quarterly, 71, pp. 29-34, Rudi, Oxford, 1999
[8] Vedi Sanford Kwinter, "Four Arguments for the Elimination of Architecture (Long Live Architecture)" in Requiem For the City at the End of The Millenium, Actar, Barcelona/New York, 2010. Riaffermare il ruolo degli architetti come produttori di cultura è anche lo scopo di un concorso di idee sul tema della performance architecure, che sarà lanciato nella città portoghese di Guimarães, capitale europea della cultura nel 2012. L'obiettivo non è, in quel caso, soltanto quello di dare il via a significative performance architettoniche in contesti urbani, ma anche quello di spronare gli architetti a trovare risorse e collaborazioni multidisciplinari per facilitare lo sviluppo dei loro progetti iniziali.
Pedro Gadanho vive a Lisbona. È architetto, curatore, scrittore.