Marco Petroni: Vi definite un’agenzia che lavora all’incrocio tra i linguaggi per lo sviluppo della cultura nelle dinamiche del nostro quotidiano. Partiamo da qui. Potete chiarire i contenuti delle vostre pratiche e come è organizzato il lavoro?
Studio Folder: La scelta di usare il termine agenzia nasce dal desiderio di dare vita a progetti che abbiano una valenza operativa attraverso un’azione continua di convergenze e differenze tra lavori più di ricerca e altri più legati al brief di una committenza, spesso a supporto di realtà culturali e produttive. Il tentativo è sempre quello di attivare una rete di relazioni con le persone con cui collaboriamo, e di spingere in una direzione di ricerca i contenuti che manipoliamo anche nei progetti in cui ci limitiamo a rispondere a un preciso brief del cliente.
Il lavoro viene svolto in varie fasi, con il coinvolgimento di differenti figure professionali a seconda dei progetti e in generale si sviluppa su due piani: organizzazione e ricerca tradotti con il linguaggio del design. Si tratta di una dicotomia non risolta che genera sempre margini di imprevedibilità nell’azione. Forse questo sdoppiamento deriva dalla nostra formazione, quella di Marco legata all’architettura e quella di Elisa alla comunicazione visiva. Il tema della rappresentazione è centrale nei nostri progetti, assieme a quelli del territorio, della tecnologia, del design dell’informazione. Un’attitudine aperta a registrare i fenomeni del mondo e a comprendere come questi processi ibridi possano modificare la percezione, l’identità, lo stato dei luoghi che attraversiamo.
Marco Petroni: È ancora in corso la XXV Biennale Design di Lubiana dove avete presentato il progetto Resilience of the past/The value of land, un’operazione d’indagine del territorio sloveno dove emerge uno dei vostri temi di riferimento: quello del confine, del limite o della frontiera. Come avete sviluppato questa nuova occasione progettuale?
Studio Folder: Angela Rui e Maja Vardjan (curatrici di BIO25) ci hanno chiesto di intervenire in due luoghi molto diversi fra loro: il MAO, Museo di Architettura e Design di Lubiana e la valle dell’alto Isonzo, vicino al confine con l’Italia. Inoltre, il team di progetto che siamo stati chiamati a coordinare era formato da un gruppo eterogeneo, dieci fra designer, fotografi, ricercatori. Ci siamo confrontati con alcuni limiti dettati soprattutto da una caratterizzazione storica molto forte del territorio (quella della Prima Guerra Mondiale legata alla memoria degli eventi di Kobarid/Caporetto) e dai tempi lunghi necessari ad entrare in contatto con una comunità a noi sconosciuta. Il rischio che ci è subito apparso come più evidente era quello di sfiorare la retorica e di agganciare il marketing nostalgico che ancora segna quei luoghi. Il dialogo con la filosofa slovena Renata Salecl (chiamata dai curatori a entrare nella scena del progetto) ha attivato un confronto serrato che ha dato il via al lavoro sviluppato in sette mesi. Il filo che lega i due interventi è uno studio sulla superficie del territorio, un macro-tema che annulla lo spazio e lega quasi 100 anni di storia trascorsi dalla Prima Guerra Mondiale a oggi. Un’indagine, una mappatura di svelamento di filoni narrativi, di storie legate alla valle che ci hanno permesso di comprendere come i margini tra le varie scale di queste storie possano diventare di interesse per la contemporaneità. Proiezioni, fotografie, documenti, oggetti, film (sia raccolti da archivi, sia prodotti ex novo) si strutturano come micro-storie e spunti per ripensare la Storia, un metodo che fa comprendere come il salto di scala – non solo fisico ma inteso come una modalità di scrittura – genera un movimento continuo denso di rimandi temporali e spaziali.
Marco Petroni: Mi ha molto colpito nell’installazione al MAO un riferimento al collettivo sloveno OHO. Vedete delle analogie con le pratiche di questo importante gruppo d’avanguardia degli anni Sessanta che usava disegni, immagini, video, suoni e altri media per costruire un punto di vista sul mondo?
Studio Folder: L’opera di OHO è stata una delle sorprese più intense dell’intero processo di ricerca, che ci ha permesso di conoscere e approfondire il lavoro di questo gruppo di artisti sloveni. Un incontro importantissimo perché molti dei loro progetti artistici sono stati sviluppati in prossimità della valle dell’Isonzo e, soprattutto, per le modalità di indagine e approccio al territorio. Nella pratica di OHO c’è la capacità di trattare un tema urgente e legarlo a un’esperienza di vita vissuta, di completa coincidenza fra atto e rappresentazione. La rivalutazione della semplicità della vita e del lavoro – intellettuale, non solo materiale – vicino alla terra è uno dei tratti caratteristici di OHO, ed è stato per noi davvero liberatorio. Per gli OHO il valore della terra è indefinibile e guardare il loro lavoro ci ha insegnato che è una pratica di vita. Vivere la terra non ha solo un valore politico, è qualcosa fuori dal tempo che fa semplicemente parte dell’esperienza umana.
Marco Petroni: Attraverso uno sguardo transdisciplinare tracciate mappe, cartografie a volte immaginarie a volte più reali. Un approccio che lega filosofia, architettura, storia, geografia con il vissuto dei luoghi. Quanto conta l’approccio relazionale e visivo nel vostro lavoro?
Studio Folder: Lavoriamo con la sintesi, ma cerchiamo sempre di produrre diagrammi e non immagini. Non vediamo altre soluzioni per la ricerca se non la rappresentazione di ciò che osserviamo all’interno del suo contesto, evidenziando collegamenti e influenze, e cercando di rendere sempre leggibile il metodo di lavoro, in modo che ogni creazione di senso sia reversibile, aperta ad altre manipolazioni. L’attenzione verso l’architettura dell’informazione ci permette questa modalità di attraversamento di vari linguaggi: la nostra ricerca esce un po’ dai confini definiti dalle singole discipline, aprendosi a una dimensione più eterogenea e questa ibridazione è molto più stimolante.
Marco Petroni: Avete partecipato all’importante operazione culturale declinata da Bruno Latour con la mostra “Reset Modernity” presso il ZKM di Karlsruhe. Quali sono le vostre riflessioni e le vostre proposte rispetto al tema suggerito dal filosofo francese?
Studio Folder: Siamo molto in linea con il pensiero di Latour e la sua visione di Gaia e della tecnologia. In occasione della mostra allo ZKM di Karlsruhe, il progetto Italian Limes è stato rivisto e allargato con il coinvolgimento di un gruppo di studiosi di glaciologia e geofisica come responsabili scientifici della campagna di raccolta dati sul ghiacciaio. Questo ci ha permesso di osservare da vicino anche le modalità del lavoro scientifico, rivelando come anch’esso sia sempre legato a un contesto operativo specifico, all’ambiente fisico e alle sue condizioni. In questa versione ampliata Italian Limes permette di chiarire come il nostro interesse per la rappresentazione sia legato all’osservazione, all’imprevedibilità e alla fallibilità.
Marco Petroni: Italian Limes è uno dei progetti più noti del vostro studio. Perché pensate che lavorare attorno al tema del confine sia importante nella cultura del progetto?
Studio Folder: Il confine non è altro che un’invenzione storica e geografica, quello che sembra una barriera è il frutto di una rappresentazione arbitraria mistificata da ragioni politiche o ideologiche. Ci interessa indagare la possibilità del mutamento dei confini perché ci permette di evidenziare questa realtà, e di avvicinare una convenzione astratta alla scala temporale umana. Questo svelamento può diventare quindi percepibile e vissuto.
Marco Petroni: Come alimentate le vostre ricerche? Ci sono designer che seguite e di cui apprezzate particolarmente il lavoro?
Studio Folder: I nostri interessi si alimentano leggendo le cose più disparate, e osservando da vicino quello che avviene nell’ambito della ricerca visiva attorno ai temi della tecnologia, della geopolitica, del territorio e dell’identità. Fra le persone, tra i contemporanei, che sono di costante ispirazione per il nostro lavoro ci sono sicuramente designer, artisti e architetti come Joseph Grima, Trevor Paglen, James Bridle, Eyal Weizman, Olafur Eliasson, Tomás Saraceno e Camille Henrot, solo per citarne alcuni. Il nostro lavoro emerge da una rete di frequenti collaborazioni con autori e curatori straordinari, fra i quali: Ben Vickers (Serpentine Galleries), Antonio Ottomanelli (Planar), Delfino Sisto Legnani (MEGA), Ethel Baraona Pohl e César Reyes Nájera (dpr-barcelona), Kei Kreutler, Ippolito Pestellini Laparelli (OMA), Cino Zucchi, Jan Boelen (Z33) e molti altri, oltre a nostri collaboratori di lunga data come Pietro Leoni e Alessandro Mason.
Marco Petroni: Progetti futuri?
Studio Folder: Stiamo lavorando a molti progetti che riguardano ambiti che spaziano tra l’arte, l’architettura e l’editoria. Nel contesto di quest’ultimo, siamo concentrati al momento su un libro dedicato a Italian Limes che uscirà nel 2018 all’interno della collana “Columbia Books on the Architecture and the City”, come co-pubblicazione fra Columbia University Press e ZKM. Il volume, a cura di Studio Folder con Andrea Bagnato, sarà soprattutto un’occasione per ampliare lo sguardo critico sui temi sollevati dal progetto.