Secondo l’artista i luoghi nei quali viviamo sono i nostri più veri e intimi ritratti, capaci di svelare attraverso sistemi articolati, la nostra identità profonda. Che si tratti delle stanze dégagé dei palazzi dell’Avana o di ambienti pubblici come scuole e nursery nelle cittadine di Chernobyl e Pripyat, evacuate dopo il disastro nucleare del 1986, l’opera del fotografo canadese innesca riflessioni che fanno da specchio alla nostra storia, puntando l’attenzione su realtà politicamente e socialmente complesse. Attraverso il ritrovamento di tracce del nostro vissuto, Polidori ci permette di analizzare a fondo il corpo della nostra stessa memoria.
Oggi la sua ricerca si è spostata da ambienti interni verso l’esterno e riguarda visioni di città; metropoli come Amman, Mumbai e Rio de Janeiro, sviluppatesi senza un piano regolatore prestabilito che l’autore definisce auto-costruite. Le chiama: “dendritic cities”, rifacendosi alle estensioni di diramazione della struttura di alcune cellule a cui questi agglomerati urbani sembrano somigliare. L’ultima serie di recente esposta alla Paul Kasmin Gallery di New York e appena pubblicata in un volume da Steidl s’intitola 60 Feet Road, si tratta di un monumentale murale creato dall’assemblaggio di 22 scatti che mappano un’intera strada di Mumbai in India (per la lunghezza di 60 piedi) creando una stretta dialettica tra fotografia e cartografia.
Beatrice Zamponi: Da dove nasce l’interesse verso sistemi abitativi collettivi?
Robert Polidori: A meno di non essere afflitti da qualche grave epidemia globale, stiamo andando incontro a enormi problemi di sovra popolazione, vivremo uno sull’altro. In queste opere di grande formato dove, attraverso l’uso di scanner e Photoshop, assemblo diverse fotografie in un unico corpo, lavoro sull’idea di continuità e giustapposizione, confine e parcellizzazione dello spazio. Ogni casa è come un libro, e l’intera foto è come una grande libreria. M’interessava sottolineare l’aspetto creativo di tale modus vivendi e come la necessità stimoli sempre l’innovazione.
Beatrice Zamponi: Presentata in un altro nuovo volume, c’è anche la serie Hotel Petra. Negli scatti, le inquadrature insolitamente ravvicinate e il colorismo delle composizioni richiamano la pittura espressionista astratta. È stata una scelta intenzionale?
Robert Polidori: L’Hotel Petra era un rinomato albergo di Beirut che si trovava in una zona del centro dove convivevano ebrei e armeni vicino al Grand Théâtre. Fortemente danneggiato durante la guerra civile degli anni 1975–1990, fu poi lasciato in stato di abbandono. Quando lo trovai nel 2010, sulle sue mura si erano accumulati circa venti anni di stratificazioni, senza nessun tipo d’intervento o forma di manutenzione, solo strati di pittura, ossidati e modificati da un processo chimico naturale. Quella trasformazione appariva ai miei occhi come il più bel quadro mai visto. L’aspetto pittorico degli scatti si è auto generato, non è partito da una mia premeditazione, pur diventando a posteriori un potente collante di tutta la serie.
Ho voluto anche fare una sorta di parallelo inverso con la tecnica del trompe-l’oeil: in questa pratica, il pittore realizza rappresentazioni illusionistiche di spazi reali con tale maestria da indurre lo spettatore a percepire la scena come oggetto o veduta tridimensionale. Sovvertendone le regole nelle mie immagini ho fotografato superfici pittoriche e le ho riprodotte in modo che al primo sguardo sembrino davvero dipinte.
Negli ultimi trent’anni ho sentito molti artisti affermare che nel loro lavoro “utilizzano la fotografia”, ho voluto quindi ironicamente pensare a me stesso come a un fotografo che, all’opposto, “usa l’arte”.
Beatrice Zamponi: La sua fotografia contemplativa e statica si sviluppa in antitesi al principio codificato da Henri Cartier-Bresson di catturare l’attimo. Può spiegare meglio il suo approccio?
Robert Polidori: Non sono mai stato attratto dalla fotografia di reportage in 35 millimetri tipica del secondo Dopoguerra, questo genere di ripresa alla Life magazine mi è sempre sembrata artefatta e propagandistica. Cartier-Bresson era certamente un umanista, ma utilizzava la fotografia in chiave decorativa, non emblematica della realtà sociale in cui viveva, i momenti decisivi e privilegiati che sceglieva erano delle anomalie statistiche; rispondendo al suo gusto personale raramente catturavano la realtà. M’interessano fotografi che vogliono restituire una visione obiettiva del loro soggetto piuttosto che darne una interpretazione. A fine Ottocento si usava la macchina fotografica come strumento di scoperta oggettiva; fu poi nel XX secolo, a causa dell’influenza dell’arte astratta che il temperamento e l’ego dell’artista divennero fulcro tematico anche in fotografia, nacque così la Me Generation.
Beatrice Zamponi: Come si è formata dunque la sua visione in termini stilistici?
Robert Polidori: Appena arrivato in America dal Canada, nel 1961, si celebrava il centenario della guerra di secessione. Ero un ragazzino e rimasi profondamente colpito dalle immagini dei libri di Matthew B. Brady che circolavano a scuola come documenti di quel conflitto. Fu allora che venni toccato dal potere fenomenologico della fotografia. Sono sempre stato attratto dai pionieri e dal principio stesso della camera oscura. Le macchine in 35 millimetri hanno un controllo della prospettiva molto ridotto rispetto al grande formato e questa per me è una discriminante fondamentale. Mi considero un moderno fotografo dell’800, intento a documentare la fine dell’era industriale.
Beatrice Zamponi: C’è un libro che ha molto condizionato il suo lavoro: L’arte della memoria di Frances Yates, dove si parla di sistemi mnemonici. Sotto quale aspetto è stato importante?
Robert Polidori: È stato fondamentale per capire quanto per me la fotografia sia uno strumento tecnologico a favore della memoria, serve a testimoniare e a ricordare; come la ceramica è un’arte utilitaria, il suo karma è servire la storia.
Beatrice Zamponi: Il testo racconta che nella scuola pitagorica per i primi due anni di corso agli allievi non era ammesso parlare. Per stimolare la memoria, veniva loro richiesto di osservare e memorizzare delle stanze vuote. Come si lega questa pratica al suo lavoro?
Robert Polidori: In maniera fisiologica la mente ricorda con più facilità ciò che è fuori dall’ordinario rispetto al banale. Ho sempre cercato di allenare il mio punto di vista in questa direzione; l’esercizio pitagorico partiva dallo stesso principio: sfruttare ciò che si distingue. Il tema della stanza è poi diventato asse portante di tutta la mia ricerca in quanto manifestazione del concetto junghiano di super ego. Si mettono nella propria stanza segni esterni che si associano a chi pensiamo di essere o vogliamo essere di fronte agli altri. Per tornare al soggettivismo del XX secolo, non m’interessa la mia soggettività, ma quella degli altri osservata in modo oggettivo.
Beatrice Zamponi: Anche l’enciclopedico lavoro Parcours Muséologique Revisité da lei realizzato a Versailles parte da questo stesso assunto. Può parlarne meglio?
Robert Polidori: Il proposito del libro è stato documentare il lungo restauro della regia divenuta poi museo storico, rivelando come le scelte fatte in merito a cosa restaurare nel corso del tempo siano state profondamente legate dall’idea che di sé aveva chi operava l’intervento. Non è un caso quindi che François Mitterrand abbia prediletto gli ambienti di Luigi XV e Nicolas Sarkozy quelli di Luigi Filippo, viste le reciproche affinità. Restaurare è attuare una forma di revisionismo storico.
Beatrice Zamponi: In questa voluminosa raccolta, che ha richiesto quasi 30 anni di lavoro, lei ha spesso scelto di focalizzarsi su dettagli, perché?
Robert Polidori: Non ho fatto altro che trascrivere visivamente il meccanismo attraverso il quale la memoria opera, frammentando e selezionando la realtà a suo piacimento. Ritornando più volte nello stesso luogo nell’arco di un trentennio, ogni volta ho sentito il bisogno di fotografare aspetti e dettagli nuovi, spinto dalla necessità della mia stessa memoria.
Beatrice Zamponi: Riferendosi alla serie su New Orleans dopo l’uragano Katrina, soggetto del volume After the flood, lei ha detto che la più importante perdita nella vita di un uomo è la memoria. Che cosa intendeva dire?
Robert Polidori: Quando i superstiti tornavano nelle loro case ormai totalmente distrutte, cercavano principalmente fotografie, tramite quelle icone potevano, almeno in piccola parte, riavere indietro la memoria di ciò che avevano vissuto in quel luogo: non portavano via oggetti (di cui non era rimasto praticamente nulla) ma immagini.
Beatrice Zamponi: Ha mai fatto degli aggiustamenti nelle sue foto in termini di composizione?
Robert Polidori: Molto raramente. Non illuminando mai gli ambienti con luce artificiale, a volte mi può capitare di aprire una finestra. Oppure è possibile che io accenda la luce in una stanza, utilizzando però solo le lampade dell’arredo stesso. In sostanza non aggiungo mai elementi che non facciano già parte dell’ambiente.
Beatrice Zamponi: Nei suoi scatti si avverte una profonda armonia, soprattutto nel colore e nella composizione. Si può parlare di ricerca di bellezza nella decadenza?
Robert Polidori: Il mio lavoro è stato a volte tacciato di essere troppo estetizzante, di mistificare eventi tragici. Io non ho mai modificato nulla di ciò che trovavo, né ho mai cercato di abbellire lo scenario che mi si presentava davanti. Tutto quello che le mie immagini offrono, nasce dalla casualità, la natura evidentemente ha un potere immaginativo e creativo assolutamente sorprendente.
Beatrice Zamponi: Lei ha detto di non amare la fotografia in bianco e nero, perché?
Robert Polidori: L’essere umano vede a colori, è difficile per me capire il valore del bianco e nero. Scegliere uno strumento che restituisce meno informazioni del reale non mi sembra logico.
Poi c’è un altro fatto: associo il bianco e nero alla parola scritta; un testo stampato a colori non acquista nulla in termini di contenuti, solo qualche infiorettatura grafica ed estetica. Per quanto riguarda i fenomeni materiali invece i colori riflessi dalle superfici portano informazioni percettive riguardanti la natura stessa della loro configurazione fisica.
Beatrice Zamponi: La serie realizzata all’Avana a partire dal 1997, è forse la sua più conosciuta. Che cosa rende quelle immagini così iconiche?
Robert Polidori: Raccontano un esperimento unico al mondo. Con l’embargo a Cuba il tempo si era fermato, ma la popolazione continuava a vivere. I mei scatti restituivano la stratificazione generata da tale processo, il fatto che una chiesa fosse diventata una banca e poi una discoteca e di nuovo una chiesa. È raro vedere tanti strati cronologici chiari e distinti in un unico luogo, segni che testimoniano silenziosamente le inesorabili e paradossali trasformazioni di una società.
Beatrice Zamponi: Che cosa cerca quando fotografa?
Robert Polidori: Tracce umane, metaforicamente un cadavere fresco; quello che m’interessa è un deterioramento il più possibile vicino al momento della morte, perché nel tempo si perde di definizione e ogni dettaglio viene spazzato via. Ecco perché il post-Katrina è stato per me così affascinante.
Beatrice Zamponi: Lei è un grande viaggiatore, qual è stato il paese che l’ha più colpita?
Robert Polidori: Oltre il Brasile e l’India, che continuano a essere una fonte inesauribile di sollecitazioni, direi lo Yemen, purtroppo credo che ne rimarrà ben poco i sauditi lo stanno lentamente distruggendo. Gli antichi palazzi di Shibam o dell’area del Wadi Do’an sono incredibili agglomerati turriti alti fino a 7 piani che conservano un fascino unico. E poi l’Isola di Socotra, a 350 km dalla costa, che è caratterizzata da un microclima che consente a ogni genere di vegetazione di crescere, per questo viene considerata dai botanici come le Galapagos del regno vegetale. Da quando mi sono trasferito a vivere in California, sono sempre più attratto dal mondo delle piante e dalla loro struttura, nel futuro vorrei dedicare più tempo all’esplorazione di questo silenzioso universo.