Il continuo flusso di popolazione negli spazi urbani rappresenta una sfida per i designer, per gli architetti, per gli urbanisti e per i politici. Al recente convegno Urban Age, ospitato dalla Biennale Architettura 2016 e organizzato dalla London School of Economics e dalla Alfred Herrhausen Gesellschaft della Deutsche Bank, Rahul Mehrotra, architetto indiano e docente alla Harvard University, ha illustrato la sua idea di “urbanistica effimera” come necessità di dare la priorità alla durata nei progetti urbanistici e architettonici.
Nulla è permanente, nulla è sacro
Incontrato alla Biennale di Venezia, in occasione di Urban Age, Rahul Mehrotra racconta la sua idea di “urbanistica effimera” per dare la priorità alla durata nei progetti urbanistici e architettonici.
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- Philippa Nicole Barr
- 10 agosto 2016
- Venezia
Mehrotra afferma che, dato che interi settori di popolazione risiedono in città solo per qualche mese l’anno, la pianta della città dovrebbe essere malleabile e dovrebbe essere capace di espandersi e contrarsi. Per argomentare questa tesi la mostra di Mehrotra alla Biennale di Venezia presenta la sua ricerca sul Kumbh Mela, un agglomerato indiano di sette milioni di persone che dura meno di due mesi. Costruita rapidamente con soli sette materiali, viene definita da Mehrotra “la città più leggera” del mondo. “Noi progettiamo per l’assolutezza, non per la transitorietà”, sostiene, “ma servono invece ambienti urbani più adattabili per far fronte alle esigenze che si presentano di volta in volta”. Domus ha chiesto a Mehrotra di spiegare la sua idea di architettura effimera e il desiderio del sacro nella città contemporanea.
Philippa Nicole Barr: Credi che il ciclo di conferenze Urban Age, e in generale la pratica dell’architettura, dovrebbero rispondere meglio al desiderio di spazi sacri del pubblico? Rahul Mehrotra: Negli Stati laici abbiamo cercato non dico di soffocarli, ma di non dar loro una manifestazione fisica. Evidentemente, però, esiste un’aspirazione importante a questo genere di espressione e noi dobbiamo tenerne conto. Moltissime infrastrutture religiose sono sotterranee per mancanza di spazio, non si vede mai un progetto di sviluppo che parli esplicitamente di spazi residenziali, di spazi commerciali e poi di spazi sacri. C’è il pubblico, e il pubblico di per sé lo si può suddividere in tutta una gamma di suddivisioni. Ma se lo spazio sacro diventasse parte di questa equazione le città diventerebbero molto più ricche. Non siamo ben sicuri come trattarlo con l’oggettività dei nostri dibattiti più razionali sulla città. L’intera prima giornata [del convegno Urban Age] è stata prevalentemente dominata dalle mappe, dai dati e dalle statistiche; ma, se universalizziamo questi problemi, per forza di cose perdiamo la capacità di parlare del sacro e di molti altri aspetti che ruotano intorno alla soggettività.
Philippa Nicole Barr: È possibile collegare questo concetto di spazio sacro al concetto di estetica, che spesso viene tagliato fuori dai discorsi sul progetto per il Sud del mondo e per i paesi in via di sviluppo? Rahul Mehrotra: Certamente, io credo che ciò che hanno fatto il Modernismo e la città moderna sia stato appiattire ogni cosa. Nel mondo odierno l’idea che spesso è venuta in luce, ma che non è mai stata discussa, è il concetto di pluralismo e di diversità. Tutti i dibattiti fino a oggi hanno riguardato l’infrastruttura fisica, non abbiamo parlato dell’infrastruttura sociale. E l’infrastruttura sociale poi porta alla questione dell’estetica, perché è attraverso l’infrastruttura sociale che si raggiunge l’espressione architettonica: “Bisogna permettere di costruire un minareto in Svizzera”? Solo se affrontiamo questi problemi di diversità, di pluralismo, e li traduciamo nelle adeguate strutture istituzionali inizieremo a toccare la questione dell’estetica.
Philippa Nicole Barr: Che cosa ti ha spinto a studiare il Kumbh Mela e a realizzare questa mostra per la Biennale? Rahul Mehrotra: Ho scritto molto sulle città indiane e ho iniziato a usare l’espressione “città cinetica”. Quello che ho cercato di dimostrare nel caso specifico è che non si dovrebbe parlare di città formale o informale, ma che le città dell’India sono cinetiche, cioè si trasformano l’una nell’altra – il fattore tempo, la permanenza – e così mi sono trovato impegnato sul tema della temporalità perché ho iniziato a documentare la trasformazione dei campi da cricket che di sera diventano luoghi per le feste di matrimonio, grazie al bambù e al tessuto, e come lo spazio si trasforma lungo la scala temporale, e mi interessa molto questo concetto in quanto spiegazione della forma e della natura della città indiana. Noi trattiamo la permanenza come una condizione ordinaria. Ho semplicemente pensato che prendere il Kumbh, studiare una grande città, illustrare come questo genere di temporalità potesse risolvere un problema di queste dimensioni. Non sto sostenendo che dovremmo costruire città effimere, ma affermo che dovremmo mapparle tutte e che tutte le nostre città dovrebbero prevedere simili spazi di uso temporaneo, e che sarebbe un’ottima cosa integrarvi la religione, perché gli spazi di questo genere si possono usare in modo temporaneo per funzioni religiose di carattere effimero, in modo che non nascano contestazioni sulla preponderanza di un credo religioso, che poi diventa una questione politica – e questa è una delle ragioni per cui i politici evitano tutta la faccenda.
Philippa Nicole Barr: Vorrei ricordarti il concetto che il direttore della Biennale, Alejandro Aravena, definisce come “capitale impaziente” e “capitale paziente” e il relativo rapporto con l’effimero. Come può il capitale essere paziente se i progetti sono effimeri? L’architettura effimera è compatibile con il sistema della finanza e degli investimenti di oggi? Rahul Mehrotra: La domanda nasce con il presupposto che la soluzione stia nel finanziamento privato, ma io penso che sia una cosa da discutere. L’urbanistica dev’essere materia statale, per definizione, altrimenti non è urbanistica. Urbanistica vuol dire tenere sotto controllo i desideri, le aspirazioni e le impazienze del capitale. Quando il capitale sta nelle fondazioni, nelle istituzioni, diventa paziente. Alejandro [Aravena] ha parlato di “capitale paziente” ma qui il punto è come fa a diventare paziente. Diventa paziente solo se sta nelle mani dello Stato, delle istituzioni e delle fondazioni. È la ragione per cui l’architettura migliore viene dai musei e dalle istituzioni analoghe, perché il capitale è paziente e non si preoccupano se ci vogliono cinque anni per realizzare un progetto.
Philippa Nicole Barr: Vorrei anche parlare un po’ di ciò che hai affermato sul problema del flusso. Conosci qualche esempio di progetto d’architettura che sia stato elaborato con successo per la transitorietà e non per l’assolutezza? Rahul Mehrotra: Ne vedo delle tracce inconsapevoli in parecchi progetti, compreso il progetto di Alejandro [Aravena], c’è tutta l’idea dei siti e dei servizi, quando si crea un’infrastruttura e si permette a qualcosa di appropriarsene, di crescere con lei, di calare, senza fare un grande investimento. In architettura c’è un po’ da discutere sulla natura dei cicli di vita di questi materiali. Se voglio progettare una città da cinquantacinque giorni, da dove posso partire? Mi piacerebbe tanto trovare un committente che mi dicesse: “Voglio una casa di vacanze costruita in campagna, ma dopo dieci anni si deve poter riciclare tutto”. Sarebbe una sfida magnifica. Il fatto è che consideriamo la permanenza come una condizione normale, non facciamo attenzione alla reversibilità. Per contrasto pratico, molto la conservazione della storia, dove la reversibilità è una parte importante dell’armamentario, dove, anche se si aggiunge qualcosa di contemporaneo, un’altra generazione dev’essere in grado di eliminarlo, come se, essendo reversibile, potesse scomparire, perché domani potrebbe non piacerci più. Perché non si può progettare un’architettura reversibile?
Philippa Nicole Barr: Hai un ideale del progetto transitorio o effimero? Rahul Mehrotra: Possiamo applicare l’idea a qualunque cosa, da una casa a un edificio governativo. Credo che quel che dovremmo fare quando progettiamo funzionalità e parliamo con il committente (non sono mai stato tanto fortunato da avere un committente con cui potessi farlo senza perdere l’incarico) sarebbe chiedere: perché nel brief non si parla della vita dell’istituzione? Philippa Nicole Barr: Della durata del governo? Rahul Mehrotra: È questo che intendo quando parlo di flusso e di transizione. Attualmente sto pensando a progettare una scuola di gestione urbanistica e una delle domande che farò ai miei committenti è: quanto durerà? Trent’anni? Se l’urbanizzazione indiana non rallenta avremo problemi più grossi e potrebbe non servirci una scuola di gestione, avremo bisogno di una scuola di amministrazione strategica o di una scuola militare. Philippa Nicole Barr: O di sicurezza pubblica? Rahul Mehrotra: Certo. E allora perché dobbiamo sempre presumere che tutto durerà per sempre? Per noi non è così, e allora perché dovrebbe essere così per le istituzioni?
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