Creando per ognuna un racconto molto personale, Elisa attinge e mescola realtà diverse: design, arte, architettura, fotografia e moda, ma l’elenco potrebbe facilmente ingrandirsi... E infatti uno dei suoi ultimi lavori è stato per uno spettacolo teatrale. Ha anche contribuito a fondare Officina Temporanea, un progetto di ricerca sui linguaggi contemporanei che si occupa di design e forme espressive dell’arte con attenzione alle tematiche sociali.
È difficile, se non quasi impossibile, etichettare un mestiere come il suo. Abbiamo provato a farcelo raccontare, incontrandola nel luminoso appartamento dove lavora a Milano in via Plutarco, in un edificio anni Trenta che dialoga, suo malgrado, con le nuove case di Zaha Hadid per CityLife.
Come definiresti il tuo lavoro?
Sono architetto e interior stylist. Il mio è un lavoro estremamente complesso perché prevede competenze anche molto diverse tra loro. Il filo che le collega è che si tratta di comunicare l’immagine di un’azienda. Cerchiamo sempre di fare una ricerca molto mirata e specifica per valorizzarne il più possibile l’identità. Parallelamente, lavoriamo con riviste di interni e ci occupiamo di campagne pubblicitarie e allestimenti. Di recente, poi, ho lavorato anche alle scenografie di uno spettacolo teatrale.
Come hai cominciato?
Diversi anni fa e un po’ casualmente. Lavoravo alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano a un progetto di ricerca visiva nel dipartimento di Nuovi Media e sono stata chiamata da un’amica che mi ha chiesto di aiutarla su un set per un servizio fotografico. Da allora, questo mondo si è sempre più avvicinato al mio. In studio ci occupiamo di diverse cose: dai cataloghi per le aziende all’allestimento di set per riviste agli interni di appartamenti o alla progettazione di punti vendita e vetrine. Le attività sono diverse e cambiano di volta in volta.
Fai tutto da sola? Con chi ti interfacci abitualmente?
Naturalmente mi avvalgo di diversi collaboratori, sarebbe impossibile fare tutto da sola. Per lo più, fotografi, architetti e grafici.
Un aspetto importante del tuo lavoro è la ricerca della location… Come funziona?
Quando costruiamo l’immagine per un’azienda decidiamo se produrre immagini in location o progettare set da realizzare in studio. È una decisione legata al tipo di racconto che vogliamo creare. Il tentativo è sempre quello di sorprendere il pubblico, scovare spazi mai visti prima. La scelta è sempre funzionale al tipo d’immagine che vogliamo ottenere. Di recente, ho lavorato in uno spazio in cemento, disegnato da Tadao Ando, un luogo rigoroso e architettonico. Amo però tantissimo lavorare negli spazi storici e cercare case d’epoca importanti. Mi piace inserire arredi contemporanei in uno spazio in totale contrasto, come pezzi minimali in spazi carichi e barocchi. Amo l’architettura di Carlo Scarpa e ho cercato un modo per lavorare in tutti gli spazi disegnati da lui. Ho avuto una fase brutalista, una fase palladiana… Diciamo che questo lavoro mi dà l’opportunità di vedere posti bellissimi.
Quali sono i tuoi riferimenti culturali?
Sono tanti e diversi: Caravaggio, per esempio, per la qualità della luce, drammatica e straordinaria, che amo tantissimo e che è abbastanza visibile in tanti miei lavori. Quando scelgo un fotografo, lo facciamo proprio in base al tipo di luce che vogliamo ottenere. Lavoro spesso con Tommaso Sartori che ha una qualità di luce molto forte. Il suo linguaggio mi appartiene molto. E poi la pittura fiamminga. O, ancora, il Surrealismo.
Si può insegnare un lavoro come il tuo?
È difficile perché la componente personale è molto forte. Al momento, però, sto portando avanti una sperimentazione con gli studenti dello IUAV di Venezia per lavorare sulle tecnologie digitali mescolate a tecniche più tradizionali. Insegno loro come si costruisce un set, come creare delle immagini. Li spingo però a cercare di sviluppare la propria sensibilità, a essere il più possibile originali.