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Sabrina Puddu: Come vi siete conosciuti e come vi è venuta l’idea di allestire una mostra dei disegni digitali di Tony?
Tony Fretton: Ho conosciuto il Betts Project di Marie quando ha allestito delle belle mostre di disegni di Peter Märkli e poi di Pier Vittorio Aureli, in un loft fantastico. Non avevo mai esposto i miei disegni e iniziammo a parlare di una mostra. Marie venne nel mio studio e demmo un’occhiata ai disegni del mio portfolio, che non erano poi molti e perciò non si potevano mettere in vendita; e questo per Marie era un problema. Poi non mi sono fatto più vivo per…
Marie Coulon: … Un anno buono.
Tony Fretton: Ho messo insieme i disegni digitali che avevo fatto dal 2000, prima su un organizer Palm, poi su un cellulare e infine su un iPad. Ho sempre disegnato su un taccuino per far vedere ai miei colleghi come si poteva realizzare un certo particolare. Questi disegni erano talmente enigmatici, una volta passata l’occasione del discorso, che non li si poteva esporre. I disegni digitali erano un’altra cosa: un modo di riflettere tra me e me sul progetto. Quando li riunii in un solo file sul mio computer sembravano un unico foglio continuo, e pensai: “Niente male!”. E poi ci siamo visti nella nuova galleria di Marie, un negozietto al numero 100 di Central Street che lei stava ristrutturando.
Marie Coulon: E tu hai fatto un gran buco nel muro, quasi un cratere, con un martello.
Tony Fretton: Beh, mi avevi chiesto di che cosa erano fatte le pareti della galleria e così ho fatto una prova… Dopo di che, ci trasferimmo nel pub di fronte, dove c’era uno scotch sorprendentemente buono.
Marie Coulon: Al pub mi ha fatto vedere i disegni sul suo cellulare. Ho pensato che l’idea fosse straordinaria: disegni fatti con le dita sull’iPad. Non ne avevo mai visti, in una mostra d’architettura, e pensai che sarebbe stato rivoluzionario.
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Sabrina Puddu: Era anche la prima volta che allestivi una mostra di disegni digitali. Come hai risolto il problema della riproduzione?
Marie Coulon: Si fa solo una certa quantità di stampe numerate, come per la fotografia e per la pittura digitale, come fanno David Hockney e parecchi altri. Ma, a differenza di queste opere d’arte, i disegni di Tony non erano pensati per essere stampati e nemmeno per essere esposti.
Tony Fretton: Quando Marie ha provato a stamparli ha scoperto che la definizione era molto bassa e che non si poteva aumentarla. Perciò ha avuto la brillante idea di stamparli in dimensioni piccolissime e di chiamarli “Minis”.
Sabrina Puddu: Ti piace il titolo, Tony?
Tony Fretton: All’inizio non ne ero sicuro, ma ora sì. In qualche modo chiarisce che non si tratta di una mostra di disegni d’arte, ma di architettura, la quale non è decisamente arte.
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Sabrina Puddu: Mi chiedo, Marie, se nel Betts Project ci sia un filo conduttore coerente. Voglio dire: come fai a scegliere gli architetti?
Marie Coulon: Facile: la vita è troppo corta per lavorare con la gente complicata. E io ho scelto in base alla qualità delle opere. La prossima sarà una mostra di bei disegni degli anni Settanta e Ottanta di Lars Lerup, già preside della Rice University, in Texas, e aprirà giovedì 16 giugno. Voglio esporre una gamma molto variegata di persone e di lavori. Credo che sia bene mescolare architetti di primo piano, come te, con persone che non hanno mai esposto le loro opere, oppure lo hanno fatto parecchio tempo fa.
Tony Fretton: Quello che ammiro dell’atteggiamento di Marie è la sua indipendenza economica e intellettuale. A parte il Camden Arts Centre e poche altre realtà, per la maggior parte le istituzioni pubbliche dell’arte di Londra dono state trasformate dall’ideologia dei loro finanziatori in luoghi d’intrattenimento dove è sempre meno possibile vedere mostre che abbiano delle idee.
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Sabrina Puddu: Tu, Tony, parli spesso dell’architettura come di una professione collettiva – hai scritto che “progettare, costruire, dare senso agli edifici sono azioni collettive” – e ti riferisci più volte agli edifici come a entità formali realizzate dagli architetti per la sfera pubblica, aperti all’interpretazione, all’uso e all’abuso da parte di chiunque. Nel testo scritto per la mostra (www.muf.co.uk) Katherine Clarke colloca i tuoi schizzi digitali non all’inizio del percorso progettuale ma più avanti, come un modo di aprire una forma che hai disegnato all’incertezza della futura occupazione e percezione da parte degli altri. Afferma che i tuoi schizzi ammettono che “l’architettura è solo il punto di partenza”, perché la compiuta realizzazione di un edificio richiede sempre il contributo di “altri”.
Tony Fretton: È molto acuta. Un progettista deve riconoscere che i suoi edifici – e i suoi disegni – per gli altri avranno un significato differente. Mi affascina il modo in cui gli oggetti fisici sono assolutamente aperti all’interpretazione. Uno che abita vicino alla Red House ha detto che gli sembrava il mausoleo di Lenin. Nella sua arrabbiatura aveva ragione, me ne sono reso conto l’anno scorso a Mosca. Assomiglia proprio al mausoleo di Lenin, che per altro è piuttosto bello… Tu sai che la Libera Università di Berlino, che è fatta di acciaio Corten, viene soprannominata “la baracca arrugginita” e che la sede della Philarmonie è stata battezzata “l’ostrica incinta”. I tuoi edifici smettono di essere tuoi e diventano di qualcun altro. Lo accetto e ci lavoro sopra. E i disegni diventeranno anche loro di qualcun altro.
Marie Coulon: Credo che sia questo ciò che i visitatori cercavano nella mostra. Questo disegno delle Westkaai Towers, per esempio, è fatto davvero bene. Appare così fragile e così poetico. Si avverte questa atmosfera. Non è solo un disegno di lavoro, c’è qualcosa di più. All’inaugurazione vedevo che alcuni li consideravano disegni tecnici, più o meno pilastri e mattoni, mentre altri vedevano solo il disegno e quel che ci potevano aggiungere del loro. E poi nei tuoi schizzi c’è parecchio umorismo. Il disegno a linee arancione con la freccia che dice “Si sale da questa parte” e punta di lato… è piaciuto a parecchi. C’è il senso dell’umorismo perché sono fatti per te solo, sono molto personali.
Tony Fretton: Be’, quando si lavora così l’umorismo viene spontaneo. Come per il titolo Porco olimpico di uno dei disegni. Stavamo lavorando a un progetto per il Parco olimpico ed era assolutamente ovvio che non avremmo vinto. In America usano l’espressione “porcate di politica locale”, ed era a questo che pensavo quando ho scritto il titolo.
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Sabrina Puddu: A quanto pare i tuoi schizzi sono una specie di spazio di libertà dove dici tutto quel che pensi. Un po’ come il tuo account di Twitter!
Tony Fretton: Ah, certo. Soffro d’insonnia e di notte leggo un sacco di giornali. Ritwitto gli articoli che mi fanno arrabbiare, o le foto delle cose che vedo. Twitter è come gli schizzi. È bello far vedere che si è politicamente impegnati, specie di questi tempi.
Sabrina Puddu: Tu fai un’architettura politicamente impegnata?
Tony Fretton: Credo di fare un’architettura socialmente impegnata. Alla galleria Lisson il rapporto tra la gente del mondo dell’arte che sta dentro e gli abitanti del posto che stanno fuori presenta una certa polarizzazione… La Festival Hall di Southbank, fatta per il Festival of Britain del 1951, è socialmente impegnata. La parte inferiore dell’auditorium fa vedere chiaramente che di sopra si esegue Beethoven, mentre il piano di sotto è stato pensato per il ballo e per la musica pop. Delle foto del festival of Britain mostrano gente che balla fuori della sala con addosso l’impermeabile. La combinazione di cultura popolare e cultura alta mi attrae particolarmente. Forse è un punto vista socialdemocratico fuori moda, ma credo che abbia ancora valore. Per me l’architettura deve sforzarsi di rivolgersi direttamente alle persone a un polo del suo spettro, e all’altro essere un contributo alla cultura della forma.