Chiara Alessi: Ti conosco da otto anni, viviamo insieme da sei e abbiamo due figli, penso che tu non mi possa mentire sulla pressione e l’ebbrezza che ti dà sempre l’arrivo del Salone del Mobile. Ma forse quest’anno è un po’ diverso?
Odo Fioravanti: In effetti, per la prima volta sono disorientato dalla quantità delle cose che ci saranno. Fino all’anno scorso ero uno strenuo difensore della polifonicità della Design Week di Milano, ma quest’anno mi sembra un po’ difficile difenderla. Di solito, sento la vigilia con una vaga ansia di scoprire chi ha fatto cosa e come, ma stavolta invece mi sento come se fossi in procinto di dire un paio di frasi – importanti, credo – in uno stadio pieno di persone che urlano. Non mi sento di criticare questi urli, ma ho in testa un po’ di confusione. Sono certo che poi andando in fiera tutti i giorni tutto questo ritroverà un senso.
Chiara Alessi: Esistono le invidie tra colleghi anche nel design, anche tra designer. Si parla naturalmente di sentimenti troppo umani, innocui, magari meno per il soggetto dell’invidia che per l’oggetto dell’invidia... Ma tu per chi provi invidia? E perché?
Odo Fioravanti: Invidio quelli che lavorano poco perché se lo possono permettere economicamente. Io fin dall'inizio ho dovuto lavorare tanto e disegnare tanti oggetti per costruire una base economica del mio studio e della mia vita. Invece lavorare poco e produrre meno certe volte crea una percezione migliore, più rarefatta e sofisticata. Diciamo che ora ci sto arrivando.
Chiara Alessi: E quelli che presentano invece 20 o 30 progetti nuovi al Salone che effetto ti fanno?
Odo Fioravanti: È la sensazione di segno diametralmente opposto. Tipo che mi chiedo cosa sia meglio, per un istante, quando guardo certe preview del Salone con tantissimi oggetti. Sembrano quelle navi corazzate farcite di cannoni e mi fanno sentire come se avessi in mano solo un petardo. Capisco che si tratta di sensazioni schizofreniche: vorrei fare pochissimo, vorrei fare tantissimo, ma credo siano sensazioni che capitano a tutti i progettisti. Cosa fare, come fare, quanto fare sono le domande ossessive di questo mestiere, da cui credo sia impossibile sfuggire.
Chiara Alessi: E poi non mandi newsletter, non ti fai particolare pubblicità di alcun tipo, non ti sforzi neanche di frequentare i giri “giusti”...
Odo Fioravanti: Riassumerei quello che mi è successo storicamente in tre step: 1 ci ho provato, 2 mi son sforzato, 3 mi sono messo l’anima in pace: non fa per me. I giri giusti sono faticosi e a me piace andare avanti con serenità. Finisco per pensare che chiedere attenzione sia un po’ pretenzioso. Preferisco usare i social, dove uno se non ha voglia di ascoltarti fa un bell’unfollow e può escludere la tua voce dal rumore di fondo. Mi sembra più “ecologico” nel senso di: “consumo solo quello di cui sento il bisogno”.
Chiara Alessi: Com’è che, standoti vicina, ho l’impressione che un retweet di uno che conta o 2.000 like a un progetto valgano di più in termini di gratificazione di una recensione su una bella rivista storica?
Odo Fioravanti: Il successo di un progetto sui social ha un meccanismo che non è possibile commisurare con quello della stampa. Ti faccio un esempio. Di recente ho sviluppato questa clutch di nome Ivy realizzata in stampa 3D e venduta da Maison203. Abbiamo avuto un successo social incredibile e per me inedito. Visto che questa azienda vende anche online ogni like nel giro di pochi secondi si può trasformare in un acquisto. In poco tempo passi da un prodotto sconosciuto a un prodotto conosciuto fino a una vendita. Qualcosa di impensabile dieci anni fa. E poi il like è una conferma, una pacca sulla spalla, un ricostituente per l’ego dei progettisti e dei creativi in genere che per un meccanismo ovvio sono sempre in cerca di conferme. Se lavori e basta e nessuno ti mostra mai apprezzamento, che senso ha? L’artista apprezzato solo dopo la morte è una distorsione pericolosa. L’artista desidera più di tutto di essere compreso, in vita.
Chiara Alessi: Puoi approfittare di Domus per dire che cosa presenti alla Design Week 2016? Quest’anno c’è un Fuorisalone, giusto?
Odo Fioravanti: Sì, un progetto che mi fa molto felice sviluppato con Land Rover per accompagnare la presentazione alla Design Week della nuova Range Rover Evoque Convertibile. Abbiamo pensato di rappresentare l’attitudine all terrain di questa auto progettando tre tavole ispirate ad essa. Il progetto si chiama Freeride e ci vede impegnati nella creazione di un longboard per l’asfalto, uno snowboard per la neve, un surfboard per l’acqua, che poi sono i tre terreni d’elezione di questo fuoristrada. Il risultato cambia la percezione della macchina che diventa anch’essa una specie di tavola da usare in freeriding. In un allestimento che verrà presentato in via Forcella 7 nello Spazio Click, la macchina e le tre tavole saranno presentate su superfici inclinate che si fronteggiano con un videomapping evocativo. Una specie di dialogo tra tutti questi progetti e l’auto che li ha ispirati. Davvero interessante il contatto con Land Rover e con Gerry McGovern Chief Design Officer di Land Rover: tra noi è scaturito rapidamente un bel rapporto e una reciproca stima.
Chiara Alessi: Parlando con Paolo Casati di Studiolabo, fondatore di fuorisalone.it, giustamente lui reclamava come oggi sia bizzarra l’espressione stessa “extrasettore” in quanto davvero tutto è disegnato e ha delle buone e sane necessità progettuali, quindi perché mai una macchina dovrebbe essere extra-settore, al di là di non essere un “mobile” propriamente inteso?
Odo Fioravanti: Credo si tratti come in tutti casi del come e non del cosa. Una macchina se si presenta nella Design Week milanese deve temperare le sue ovvie necessità di comunicazione e di incontrare un certo pubblico con la voglia che questo pubblico ha di vedere dei progetti interessanti. Questo è quello che proviamo a fare con Land Rover quest’anno.
Chiara Alessi: Ma rimani un “animale da fiera”: dal lunedi al venerdi a Rho. Perché?
Odo Fioravanti: È il mio lavoro. Io disegno prodotti che si producono e si vendono e la fiera è la festa di questi prodotti. Mi alzo e vado in fiera felicissimo ed emozionato. Vedrò i miei prodotti, incontrerò amici, produttori, designer. Vedrò lo stato dell’arte di uno dei settori in cui opera il mio studio. È una questione di ferrea etica per me: esserci e sostenere questo sistema in cui credo. Esserci come persona con i miei sentimenti e non solo con i miei prodotti. Poi torno nella grotta dell’orso...
Chiara Alessi: Cosa succede quando finisce la festa la domenica?
Odo Fioravanti: Un certo senso di vuoto, un po’ come il giorno dopo la laurea. E dentro un infantile “ne voglio ancora...” Di solito, per uscire da questo stato ci si ributta nel lavoro iniziando a pensare perversamente alla prossima fiera...
Chiara Alessi: in mezzo a un mondo della comunicazione del design del “lo famo strano” che sottolinea alla fine o al principio di ogni comunicato: “... Non l’ennesima sedia!” tu sei quello che progetta proprio “l’ennesima sedia”. Come ti fa sentire questo?
Odo Fioravanti: Boh. Credo che ci sia un razzismo tipologico nei confronti delle sedie accusate di essere troppe. Nessuno si accanisce contro il numero di forchette o di finestre (in ogni casa ci sono più forchette che sedie). La caratteristica delle sedie è che ce n’è una che vi aspetta ovunque: in tutte le vostre case, nella sala d’aspetto del vostro parrucchiere, dall’avvocato, in chiesa, a casa della suocera, in un ristorante stellato e in un bar malfamato. Per ogni persona ci sono cento sedie che aspettano e certe volte aspettano invano. Io disegno sedie perché mi sembrano oggetti gentili e saggi che sanno aspettare voi tutti ed anche te. E poi le sedie sono un business redditizio e non servono spiegazioni filosofiche per dire che io vivo di royalty, che sono un altro ottimo motivo per disegnarle. Quattro anni fa, Starck dichiarò che non aveva più senso progettare sedie. Una settimana dopo presentò mezza dozzina di nuove sedie al Salone del Mobile. Facile desumere la morale della favola. Comunque, per non essere da meno, quest’anno presento tre nuove sedie in fiera.
Una sedia in legno per Verywood che si chiama Halo perché lo schienale è un disco di legno curvato che crea una specie di aureola intorno a chi si siede. Un prodotto pieno di bei dettagli che mi fanno felice. Poi con Pedrali una sedia da bistrot in plastica di nome Dome che ha uno schienale arcuato e accogliente come una cupola. Una sedia dallo sviluppo molto complesso che viene presentata in quattro versioni: con e senza braccioli e con e senza traforatura della seduta e dello schienale. Poi sempre con Pedrali una poltroncina con seduta in plastica che si va ad aggiungere alla già fortunata famiglia Babila.
Chiara Alessi: E poi, tra noi possiamo dircelo, il senso che ha di progettare ancora e ancora e ancora oggetti, se non per il mondo, per te...
Odo Fioravanti: O forse per loro. Direi per me e loro.