Paola Nicolin: Come è nata l'idea di realizzare un convegno internazionale dedicato a Berlino?
Stanislaus von Moos: Per combinazione, come forse succede sempre in questi casi. L'idea è nata nel corso di una conversazione con il nostro preside, Robert A.M. Stern, a proposito di che cosa si dovesse prendere in considerazione in materia di seminari e di trasferte. Quando ho suggerito Berlino gli è subito venuta l'idea di organizzare un convegno.
Dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi, il tema dell'architettura come strumento di comunicazione è stato spesso al centro di dibattiti, convegni e studi. Come si è formato il palinsesto del convegno di Yale, come sono state formulate le aree tematiche ("Le immagini della metropoli", "Vita e seconda vita delle rovine", "Reinventare Berlino", "Utopie avvelenate", "Dialettica dell'arcipelago" e "Costruire la capitale: occasioni perdute?") e quali sono stati i criteri di selezione degli interlocutori?
È nato quasi da solo. L'idea originaria era di concentrarsi sull'IBA (1984-88) e sui successi e i fallimenti della strategia della "ricostruzione critica" che fu conseguentemente adottata sotto la guida del Senatsbaudirektor Hans Stimmann, una vicenda che implica parecchie questioni fondamentali dell'architettura e dell'urbanistica postmoderne europee, e che è ancora relativamente poco conosciuta negli Stati Uniti. A mano a mano che lavoravamo al programma, mi è sembrato che occorresse considerare Berlino in una prospettiva più vasta, che implicasse l'eredità del nazionalsocialismo, il trauma della Seconda guerra mondiale e la psicosi planetaria del conflitto Est-Ovest. Berlino, dopo tutto, è stata una delle scene essenziali, se non la scena essenziale, di tutti questi contesti. Nelle discipline umanistiche, e in particolare negli studi di letteratura e di cinema, e perfino nella storia del design, questi contesti culturali e politici sono stati analizzati più a fondo che in architettura. Inoltre gli studi intorno all'architettura berlinese sono quasi esclusivamente di autori tedeschi e italiani, e perciò relativamente inaccessibili negli Stati Uniti: perciò volevamo creare una situazione in cui studenti, studiosi e architetti potessero vivere un'esperienza diretta quanto quella dei loro colleghi europei, e stabilire con loro dei contatti personali.
Non so se questo interesse per i rapporti tra arte e architettura sia più intenso a Berlino che altrove. Non saprei proprio e non mi è mai venuto in mente. Però sì, è curioso che alcuni importanti artisti contemporanei attivi a Berlino – si pensi a Olafur Eliasson e Thomas Demand – siano attratti dal rapporto tra arte e architettura. Forse Berlino, con la sua abbondanza di spazi casuali, favorisce queste sperimentazioni. E poi il boom berlinese dell'arte negli anni della Guerra fredda, quando la scena artistica locale veniva finanziata dall'estero con tanta generosità, forse ha suscitato curiosità per quest'area tra il pubblico dei frequentatori di musei e gallerie.
Credo anche che il 'rifugio antiaereo' della Hastings Hall, interrato nella sede della scuola di Arte e Architettura di Paul Rudolph a Yale, in cui si è svolto il convegno, sia un luogo che scatena ricordi di guerra e di distruzione, dato che l'architettura da bunker di Rudolph celebra la difesa dai danni bellici, e le sue scabre superfici di calcestruzzo sono una variazione sul tema estetico delle rovine brutaliste. È interessante però come ciò che colpisce nell'architettura berlinese sia la quasi totale assenza di un'estetica delle rovine. Sì, certo, c'è la Gedächtniskirche, residuo storico delle rovine monumentali del secondo dopoguerra; ma si noti che Eiermann accettò solo a malincuore di integrare il rudere nella sua chiesa. Nella storia d'amore di Berlino Ovest con lo Stile internazionale non c'era spazio per le rovine. E nemmeno lo consentiva il trionfalismo neoclassicista della RDT. Ricordiamo che lo Schloss venne distrutto contestualmente alla creazione della Stalinallee. Se Berlino è auferstanden aus Ruinen, "risorta dalle rovine", come diceva l'inno nazionale della RDT, significava anche che le rovine erano sparite. Esorcizzare le rovine in modo forse ancor più radicale è stato parte predominante dell'atteggiamento nei confronti del Muro dopo il 1989. Oggi come oggi a Berlino non si trova traccia fisica del Muro. L'amministrazione locale ha trattato i problema come la polizia tratta una scena del delitto. Quando il caso è chiuso arrivano le pale meccaniche e ripuliscono tutto.
Berlino è stata la capitale del Terzo Reich, perciò, dopo la liberazione da parte delle forze alleate e di quelle sovietiche, ha finito con il diventare la città di frontiera tra mondo capitalista e mondo comunista. Non occorre dire che tutto ciò che è accaduto a Berlino non si può leggere altrimenti che nel contesto della politica. Perciò credo che Leon Krier abbia ragione a ritenere che l'architettura di Albert Speer non si possa adeguatamente comprendere se la si considera solo parte della sua attività di criminale di guerra. E ha ragione anche Greg Castillo a sottolineare che la Gute Form del design occidentale degli anni Cinquanta non è solo un passo avanti nel compimento dell'Illuminismo, ma fa anche parte della logica dell'imperialismo occidentale… Gli storici hanno quindi di fronte a sé un duplice compito: depoliticizzare i temi che per decenni sono stati presi in ostaggio dai politici e dalla retorica della polemica politica; e ripoliticizzare i temi che continuano a essere circondati da un'aureola di castità politica.
Nella misura in cui mostre e convegni riflettono nell'impostazione un punto di vista, vengono necessariamente considerati un successo da alcuni e un'occasione mancata da altri. Ora l'Interbau di Berlino (1957) era fatto per promuovere una certa prospettiva dell'urbanistica, mentre l'IBA (1984-1988) era fatto per rimediare ai danni causati dall'evento precedente. Il nostro convegno non aveva l'ambizione di promuovere un certo tipo di architettura o di urbanistica contrapposto a un altro. Voleva, prima di tutto, documentare e informare e, in secondo luogo, ridiscutere l'architettura in un contesto più vasto e più aperto della semplice contrapposizione tra "moderno" e "reazionario" oppure tra "totalitario" e "democratico" e così via. Per me personalmente ascoltare Peter Eisenman e quel 'tipaccio' di Hans Stimmann sottolineare nei loro interventi le posizioni che hanno segnato per decenni il discorso su Berlino è stato una memorabile occasione di storia e di teoria di prima mano. E tuttavia il modo in cui si dovrà d'ora in poi parlare di Berlino forse partirà da certi interventi più problematici tenuti al convegno, come la breve risposta di Rem Koolhaas che è arrivata al bunker in videoconferenza, la quale suggeriva che, con la caduta del Muro, non c'era più alcun bisogno di definire Berlino il campo di battaglia di un conflitto ideologico. In realtà sullo sfondo del convegno c'è stato forse il fatto che Berlino nel 2013 non è una città più originale di cento altre.