Steve McCurry nasce nel 1950 in un sobborgo di Philadelphia, Pennsylvania. Figlio di un ingegnere appassionato di fotografia che gli trasmette il rigore e la dedizione nel lavoro, decide di avvicinarsi al cinema documentario ma, iscrittosi alla Penn State University, consegue poi nel 1974 una laurea in arti teatrali. L’interesse per la fotografia si accende durante la sua collaborazione con il giornale universitario The Daily Collegian, e si consolida col primo dei suoi tanti viaggi in India, dove lavora per un anno come freelance.
Steve McCurry
“Se sai aspettare, le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto”.
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Non c’entra l’adrenalina, solo la storia.
Steve McCurry
È qui che viene a sapere da due afgani che condividono il suo stesso albergo che, oltre la frontiera, è in atto una guerra. Attraversato il confine col Pakistan travestito semplicemente con un tradizionale shalwar kamiz, e raggiunti i Mujaheddin, è tra i primi fotografi a documentare il conflitto in Afghanistan e le sue foto (sviluppate da rullini che aveva cucito all’interno dei vestiti per evitare la confisca nel riattraversare la frontiera) compaiono per la prima volta sul New York Times Magazine. Quando poco dopo i russi invadono il paese, il suo è tra i pochi lavori sull’argomento, e viene riproposto da altri importanti news magazine come Paris Match, Time e Stern, catapultandolo al vertice del fotogiornalismo internazionale e valendogli nel 1980 una Robert Capa Gold Medal per “il miglior reportage fotografico dall’estero, per realizzare il quale siano stati necessari eccezionali doti di coraggio e intraprendenza”.
Arrestato in Pakistan, picchiato durante un festival religioso in India, coinvolto in un incidente aereo in Jugoslavia, ha rischiato più volte la vita, ed è stato dato per morto due volte. Tra gli altri premi ricevuti durante la sua quarantennale carriera, un Magazine Photographer of the Year nel 1984, una medaglia d’onore della White House News Photographers Association nel 1987, quattro primi premi al World Press Photo tra il 1984 e il 1992, cinque alla Picture of the Year Competition (l’ultimo nel 2000), un Eisenstaedt Award nel 1998, il Lucie Award per il fotogiornalismo nel 2003, un primo posto assegnato nel 2006 dalla National Press Photographers Association e il Leica Hall of Fame award nel 2011. Per la Francia è cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere, in Inghilterra la Royal Photographic Society gli ha conferito la Centenary Medal for Lifetime Achievement, e in Italia ha ricevuto l’Ambrigino d’Oro e il premio Flaiano alla carriera.
Se dovessi smetterla con la fotografia penso che continuerei a viaggiare. Per me, fotografia e viaggio sono come intrecciati. […] Quindi se non fotografassi sarei uno zingaro professionista.
Steve McCurry
Nel 1986 entra a far parte della prestigiosa agenzia Magnum, del cui co–fondatore Henri Cartier–Bresson — il suo “momento perfetto” riecheggia in molte delle fotografie di McCurry — dice: “È tra le mie più grandi ispirazioni. Era uno straordinario narratore. Le sue immagini sono eleganti e ben composte ed era un ottimo ritrattista. Credo che le sue immagini non siano invecchiate di un giorno dal momento in cui le ha scattate. Era un documentarista […] un fotografo molto intelligente, un artista”.
È da anni legato alla rivista National Geographic, lavorando per la quale realizza nel 1984 la celebre Afghan Girl, l’immagine per cui è sicuramente più conosciuto e che la CCN ha definito “la fotografia più famosa del mondo” (e che McCurry rivisiterà 17 anni dopo, sempre col supporto di NatGeo, rintracciando in Pakistan Sharbat Gula, fino ad allora rimasta anonima, che all’epoca del loro primo incontro aveva 12 anni e non aveva mai visto una macchina fotografica). Apice di un’esemplare serie di ritratti, “genere” di cui è indiscutibilmente tra gli esponenti più riconosciuti, Afghan Girl è un perfetto esempio di quel che McCurry intende quando spiega che nel suo lavoro “la cosa più importante è la singola foto: lavorando su commissione bisogna certamente produrre immagini che compongano una storia coerente, ma ogni foto deve stare in piedi da sola”.
Sfogliando i suoi reportage, risulta del resto evidente la sua convinzione che sia proprio attraverso gli ultimi della terra che è possibile narrare la Storia, e che anche una singola fotografia possa simbolizzare un evento. In realtà, anche se è ritenuto spesso e a torto un fotografo di guerra e il suo nome richiama immancabilmente i teatri di conflitto più drammatici della storia recente — Iran e Iraq, Libano, Filippine, Tibet, l’ex Jugoslavia, il Golfo Persico e ovviamente l’Afghanistan — il suo occhio non è stato mai attratto dai combattimenti ma si è piuttosto sempre focalizzato sulla vita quotidiana delle popolazioni afflitte, e sulle condizioni in cui la guerra lascia i paesi che ha attraversato. Celebre, da questo punto di vista, la fotografia dei cammelli in cerca d’acqua sullo sfondo dei pozzi petroliferi fatti bruciare da Saddam Hussein durate la ritirata dell’esercito iracheno dal Kuwait alla fine della prima Guerra del Golfo.
La pratica della curiosità, fondamentale per il suo lavoro, e quella del rispetto, in parte maturata col suo interesse per i monaci buddisti più volte incontrati (e i cui ritratti sono raccolti nel libro The Path to Buddha: A Tibetan Pilgrimage, del 2003), rende le sue immagini coinvolgenti ed empatiche, alla costante ricerca di quel contatto visivo che, seppure breve, ci accomuna mostrandoci tutti come parte della stessa umanità. La totale immersione nella storia raccontata, unita al desiderio di mostrare culture in via di sparizione, ne hanno fatto probabilmente il fotoreporter a colori per antonomasia, tanto che la Kodak gli ha fatto dono dell’ultimo rullino di diapositive Kodachrome, pellicola le cui caratteristiche peculiari sono state incarnate a perfezione dalle sue fotografie. Ma in McCurry il colore non è mai fine a se stesso, e diventa contenuto, informazione, messaggio perché, come egli stesso ha affermato, “una fotografia a colori deve avere anche un contenuto emozionale e non essere solo una fotografia sul colore”.
Un po’ è cambiato il mondo. Potendo scegliere, vorrei fotografare nel mondo di ottant’anni fa, quando eravamo tutti più ingenui davanti a un obiettivo. Oggi siamo più scettici, forse perché tutti siamo passati dietro l’obiettivo.
Steve McCurry
Passato al digitale senza remore nel 2005 (“Non sono tra quei fotografi che rimpiangono il passato, il digitale è molto meglio di quanto sia mai stato l’analogico”) McCurry, che si è sempre definito semplicemente un fotografo, preferisce oggi l’espressione visual storyteller, soprattutto in risposta alle numerose critiche sull’uso della postproduzione e alla vasta polemica che ne è conseguita, e che ha reso necessaria una sua presa di posizione etica sul confine tra fotogiornalismo e arte. Sul tema ha anche detto che “una fotografia può avere elementi artistici ed essere comunque documentaria, tra le due cose non c’è un confine chiaro”. Ossessionato dal lavoro, ha più volte dichiarato di non voler andare in pensione (“Penso che se si trova qualcosa che si ama, bisognerebbe farla per tutta la vita”) ma che oggi, ormai svincolato dalle necessità economiche e dai limiti del fotogiornalismo, si sente libero di poter scegliere cosa fotografare per il piacere personale. In quest’ottica, oltre a concentrarsi su libri che rivisitano la sua intera carriera — tra cui Steve McCurry (2005), The Unguarded Moment (2009), The Iconic Photographs (2011), Untold: The Stories Behind the Photographs (2013), On Reading (2016) e A Life in Pictures, (2018) — ha recentemente realizzato un lavoro sugli animali nel mondo (Animals, 2019) e sta portando avanti una serie fotografica sulla figlia Lucia.
Esempi di un controllo molto personale sulla fotografia anche in contesti decisamente commerciali, sono la realizzazione del Calendario Pirelli 2013, per il quale sceglie di fotografare donne certo bellissime — Elisa Sednaoui, Petra Nemcova, Isabeli Fontana, Liya Kebede, Kyleigh Kuhn e un’Adriana Lima incinta, tra le altre — ma tutte impegnate in ambito umanitario con Fondazioni e ONG, e la collaborazione con Lavazza che, durata tredici anni, lo ha portato in viaggio in dodici paesi a documentare le condizioni di lavoro nella filiera del caffè e, nel 2015, alla pubblicazione del libro From These Hands: A Journey Along the Coffee Trail. Tra i numerosi altri volumi pubblicati si possono contare The Imperial Way (1985), Monsoon (1988, rivisitazione a quasi trent’anni di distanza dell’omonimo lavoro del neozelandese Brian Brake, sua prima fonte di ispirazione), Portraits (1999), South Southeast (2000), Sanctuary (2002), Looking East (2006), In the Shadow of Mountains (2007), India (2015), On Reading (2016) e Afghanistan (2017).
Con ImagineAsia, l’organizzazione no profit fondata, tra gli altri, assieme alla sorella Bonnie — da sempre al suo fianco nell’organizzazione dei lavori — aiuta oggi le comunità locali a sostenere l’educazione e le cure mediche dei bambini in Afghanistan e Pakistan e, sempre in Afghanistan, ha promosso la Young Women’s Photography Initiative.
Siamo tutti connessi per il fatto di essere su questo pianeta in questo particolare momento, e dobbiamo interagire e stare assieme. Cercare di coesistere nel modo migliore. E dobbiamo farlo ora, perché moriremo tutti e altri arriveranno a prendere il nostro posto. Quindi cerchiamo di non ucciderci a vicenda, così da poter fare tutto quel che vogliamo fare. Qual è lo scopo finale? Godersi questa breve vita, e renderla più piena e significativa possibile.
Steve McCurry