Nel maggio del 2022 ci siamo immersi dentro i sei decenni di un dialogo che lega Renzo Piano a Domus, tutto conservato nelle pagine del nostro archivio. Percorsi i primi 30 anni, questo dialogo ci aveva lasciato con molti progetti e molti insights su una domanda apparentemente senza risposta univoca: cosa fa l’architetto?
I trent’anni più recenti invece ci lanciano in una storia a prima vista più individuale, ma in realtà dal respiro assolutamente globale.
“Non è indispensabile ammirare tutte le sue opere (...) per apprezzare il suo talento per un’architettura antiretorica, dignitosa e di qualità duratura. (...) Mentre però la fama di Piano andava crescendo, quella dell’architettura italiana subiva un declino altrettanto costante”.
Gli stessi Ripensamenti del 2003 di Deyan Sudjic (Domus 864, novembre 2003) che lanciavano una luce retrospettiva sui primi tre decenni di carriera di Renzo Piano, sono in grado di rivolgere la stessa luce anche in avanti, sui decenni che portano a oggi, caratterizzati forse da una diversa domanda: se all’inizio si trattava di “Cosa fa l’architetto?”, ora l’attenzione va a “Cosa fa Renzo Piano?”
Dagli anni ‘90 le pagine di Domus raccontano il formarsi di una figura carismatica che, se in precedenza si era distinta per una afasia verbale che si esprimeva per soli progetti, adesso ha proprio nella parola il suo valore più importante: grande tratteggiatore di scenari e promotore di valori, dalla fine degli ‘80 Piano è richiesto in tutto il mondo, e per inviti o concorsi vinti realizza progetti grandi e più piccoli, tutti però sempre più mediatizzati.
A questo periodo appartengono il Kansai International Airport di Osaka (Domus 764, novembre 1994) come la fondazione Beyeler presso Basilea (Domus 798, novembre 1997), il lungo progetto per Potsdamer Platz a Berlino (Domus 815, maggio 1999) come l’Hermès di Tokyo (Domus 841, ottobre 2001)
È in questo percorso che Domus lo incontra più volte, per parlare di principi costanti in applicazioni diverse, della relazione tra paesaggio e funzione come per lo Zentrum Paul Klee di Berna (Domus 872, luglio 2004), o di quella tra suono e forma per il Parco della Musica a Roma:
“Allora cominci a lavorare sul suono ma abbandoni il mondo dell’acustica. Insomma è un po’ come una pallina del flipper, che continua a muoversi tra il terreno della scienza e un terreno che è quello delle emozioni, della valutazione personale”. (Music for architectures. Domus 858, aprile 2003)
Il suo lavoro è globale, lui è sempre in viaggio, Domus ne fa persino un pezzo con lui, seguendolo sul cantiere Klee e su quello dei grandi magazzini a Colonia.
È lì che in parte Piano risponde a Sudjic ed emancipa Il suo linguaggio dal cliché sullo “stile”, che “…non va inteso come ripetizione di un gesto architettonico, ma piuttosto come accumulo di conoscenza, una sorta di effetto collaterale alla crescita di conoscenza da parte del gruppo di persone che lavorano con me. Penso all’uso del legno. Il legno mi appartiene (…) da materia antica e tradizionale è infatti diventato un materiale modernissimo, strutturale, molto affidabile” e oltre al Centro culturale di Nouméa in Nuova Caledonia (Domus 786, settembre 1996), è lo stesso Piano a evocare gli archi lamellari per l’arca dell’opera Prometeo di Luigi Nono (Domus 667, dicembre 1985) “Ma non bisogna mai accontentarsi” dice poi “altrimenti si rischia di diventare autoreferenziale. (...) In fondo la vera difficoltà – il vero ‘stile’ – sta nel guadagnarsi una vera Libertà da sé stessi”. (In viaggio con Piano. Domus 881, maggio 2005)
Ed è anche lì che traccia un profilo della struttura del suo studio, e del metodo che ha preso la sua pratica: “Nel nostro studio si continua a fare tutto… un progetto esecutivo è ancora un percorso creativo (...) e poi ogni cantiere è un'occasione per invenzioni da utilizzare in altri progetti. questi cantieri sono come dei laboratori, delle macchine per la conoscenza”. (In viaggio con Piano. Domus 881, maggio 2005)
Smarcatosi da squadre e appartenenze, continua una lunga stagione di grandi progetti che hanno tutti un forte valore di landmark urbano – a volte risultato di dibattiti estesi. Tutti portano la firma di un metodo che è diventato linguaggio, di una tecnologia mostrata che ha però una missione fondamentale in termini ecologici e prestazionali, di dettagli e materiali la cui scelta diventa garanzia di autorialità e qualità. È la storia del grattacielo per il New York Times, della torre Intesa Sanpaolo a Torino (Domus 994, settembre 2015), dello Shard a Londra (Domus 1003, giugno 2016), del Whitney Museum di nuovo a New York (Domus 992, giugno 2015).
Io continuo a credere che nel nostro lavoro ci siano tre sfere, tre mondi: la sfera della tecnica, quella dell'inventiva e della poetica personale e quella dell'attenzione sociale. Sono parti di uno stesso discorso sull’architettura.
Ma Renzo Piano ci tiene a non far cadere questi progetti nella logica di ricette standard inopinatamente ripetute attraverso il globo: tutti sono calibrati su un contesto che, col passare degli anni, torna ad essere sempre più un contesto sociale.
Dopo che lo avevamo lasciato a Otranto, nel 1979, con i laboratori di quartiere (Domus 599, ottobre 1979), il Renzo Piano cittadino lo ritroviamo infatti nel 2016 a sedere in Parlamento, senatore a vita, e questa è l’occasione per lui di investire sulla sua posizione per agire sul tessuto fisico e sociale delle città, persino rinegoziare quel ruolo dell'architettura nella società che la critica aveva voluto dichiarare morto se non nullo, anni prima.
Il suo studio a Palazzo diventa sede del G124, gruppo di giovani professionisti chiamati a lavorare su diverse periferie italiane. La sua ricetta è quella dell’“architetto condotto”: “Si interveniva come fa un buon medico condotto quando opera per la salute dei suoi pazienti: con un approccio globale, basato sulla conoscenza dei sintomi e, soprattutto, della storia clinica. (...) Hanno ascoltato gli abitanti per capire problemi e desideri del quartiere, individuare i punti dove intervenire con cantieri leggeri e poco invadenti”. (L’architetto condotto. Domus 998, gennaio 2016)
Resta ancora un tema: “dov’è Renzo Piano?” pareva ancora chiedersi l’ormai familiare Sudjic. Più internazionale che italiano, se non direttamente parigino – installato nel suo studio della rue des Archives dietro le vetrine di una iconica modelleria – col passare degli anni Renzo Piano si racconta sempre più come genovese.
A Genova Domus lo era andato a trovare la prima volta nel suo studio radical-hi-tech (Domus 479, ottobre 1969), ed è il suo legame con Genova che fa da costante lungo tutta la sua vicenda, prendendo forma in progetti e luoghi di grande significato. Per il 1992 sviluppa l’area del Porto Antico che diventa simbolo della città al volgere del millennio (Domus 740, agosto 1992), dieci anni più tardi lo troviamo ancora ad espandere la sua visione in un masterplan di rigenerazione paesaggistica e infrastrutturale dell'intera area urbana.
Nel 2018, poi, dopo il crollo del ponte Morandi, arriva il suo progetto, il ponte Genova San Giorgio, a voler riconciliare la città col suo trauma, e al contempo col suo paesaggio naturale e umano. Un approccio definito “antropologico” che Piano sintetizza così: “Sarà un ponte semplice e parsimonioso, ma non banale. Un ponte sobrio, nel rispetto del carattere dei genovesi (...) non avendo nessuna superstruttura, e avendo un bordo trasparente, permette di vedere verso le vallate e verso il mare, permette alla luce di “scivolare” sulla superficie”. (Molto più di un ponte. Domus 1059, luglio 2021)
Ed è così che David Chipperfield, nel 2020, tornava a trovare Renzo Piano per Domus, di nuovo nel suo studio, di nuovo genovese, iconizzato con i suoi attributi metodologici di professionista profondo che sviluppa le forme dalla funzione e dalla visione, e con i suoi attributi personali e persino di ambiente circostante: “L’atmosfera di sperimentazione e progresso è trasmessa non solo da modelli e schizzi, con la tangibilità o il senso di apertura che comunicano, ma anche dalla coerenza del lavoro stesso e dal senso di fiducia negli obiettivi che emanano dallo studio. (…) ‘Non inizio mai con una forma’, afferma Piano, descrivendo invece come cerchi le possibilità nel programma e le sfide nell’idea di costruzione. ‘Non so mai quale dovrebbe essere l’aspetto di un edificio’ (…) Il lavoro di Renzo Piano appare senza tempo e moderno come sempre, condotto felicemente in questo straordinario spazio”. (La buona pratica. Domus 1045, aprile 2020)