Dopo mezzo secolo di un rapporto intenso e prezioso, un’amicizia che aveva regalato a Domus alcune tra le pagine più interessanti, a volte dirompenti e altre volte illuminanti, lungo gli anni, nel marzo 2022 avevamo dedicato ad Andrea Branzi un’immersione nel nostro archivio e nel suo pensiero, che lui stesso era stato felice di leggere. Oggi lo ricordiamo rituffandoci ancora una volta in quelle pagine, ringraziandolo per 50 anni di strada insieme.
Andrea Branzi su Domus: dalla distruzione della cultura agli interni come paesaggi investigativi
“Rockefeller ci saluta dal 350° piano: ‘Come here, come on darlings, get in, please!’ Ecco Ettore Sottsass sul cofano di un taxi che scende contromano la Avenue of Americas, tutto vestito da messicano in tulle rosa, ed ecco i 13 Archizoom con scarpe di amianto a suole calamitate, con le camicie viola aperte sul petto su cui pende un piccolo bijoux a transistor, ed ecco La Pietra in lamè color tango, cravatta elettrica, e il suo clarino tutto d’oro. (...) Poi parlano tutti al microfono, di noi, di Domus, del liquore Galliano, di Carnera ecc. ecc., e tutti ringraziano l’Italia per quello che ha fatto e quello che sta facendo per il mondo. A mezzanotte in punto (...) la guglia dell’Empire State Building si accende, e appare la Madonnina!”
Esattamente 50 anni fa un giovanissimo Andrea Branzi fa il suo debutto sulle pagine di Domus (Italian Power, Domus 511, giugno 1972) con quello che forse è il documento più importante sulla mostra “Italy: the new domestic Landscape” del MoMA, ovviamente dopo il suo leggendario catalogo: una colonnetta editoriale che prende a calci le celebrazioni del sistema, per poi tornarci dentro lanciando aforismi e lampi al neon e caramelle di vario genere. All’epoca “guida spirituale” degli Archizoom, come lo definisce Ugo La Pietra, Branzi è in prima fila in quell’onda radicale italiana che Lapo Binazzi degli UFO, sempre su Domus, vorrà descrivere come un fenomeno tutto sommato borghese, capace però di mettere in questione ed evidenza le contraddizioni delle posizioni ortodosso-marxiste dei tardi ‘60 (Domus 578, gennaio 1978), un’onda da sopra la quale Branzi pratica una metodica “distruzione tecnica della cultura”.
La Radical Architecture Si colloca all’interno del più generale movimento di liberazione dell’uomo dalla cultura, (...) e tende a ridurre a zero tutti i processi di progettazione, rifiutando il ruolo di settore disciplinare impegnato a prefigurare, attraverso le strutture ambientali, un futuro già codificato.
Andrea Branzi, 1978
In mezzo secolo di Domus, come di storia internazionale del design, infatti, Andrea Branzi ha sempre giocato nel ruolo di grande modellatore di domande e grande picconatore di impianti razionali, specie se pregiudiziali o ideologici: una “coscienza del design” – come Alessandro Mendini aveva definito Enzo Mari, ma su un fronte radicalmente opposto, che in 50 anni di evoluzione assumerà una grande molteplicità di forme.
L’era radicale finisce a fine anni Settanta, “Tutto finito!” dice La Pietra, (Architettura radicale in Italia. Che ne è successo?, Domus 580, marzo 1978). Finito, sì, ma anche destinato a propagarsi sistematicamente tra diverse mutazioni; un anno dopo Branzi lavora a un progetto decisamente meno utopico, ma sempre incentrato sull'oggetto industriale come medium ripetibile e comunicativo: gli uffici postali prefabbricati sviluppati da Pierluigi Spadolini per Poste e Telegrafi, che oggi caratterizzano i paesaggi urbani e suburbani di tutta Italia. In questo progetto Branzi con Clino Trini Castelli curerà specificamente gli arredi e i sistemi di identificazione (In Italia, uffici postali in serie, Domus 594, maggio 1979).
Design come medium: due anni dopo, lo storico e critico Benedetto Gravagnuolo presenta su Domus una nuova collezione di pezzi d’arredo creati da Branzi e conferma come la sua produzione “vada scritta ai linguaggi visivi” (I linguaggi ereditati, Domus 619, gennaio 1981), minando le gerarchie di scala assodate dell’architettura d’interni, ma soprattutto “tradendo il passato per amore del presente”: il Branzi che collabora con Alchimia di Mendini e poi confluirà in Memphis si starà pure annunciando come teorico del pensiero debole, e dell’oggetto come metafora, ma dello storicismo tipicamente postmoderno ha proprio poco.
Ciò che si afferma è una ‘tautologia delle cose’ (...) Eppure tra le rigide maglie di questo raggelato disincanto si insinua l’elegante speranza dell’invenzione. Ed è per questo, forse, che i lieti oggetti di Branzi comunicano quella sensazione di leggero ottimismo di trovarsi di fronte a qualcosa di completamente ‘nuovo’.
Benedetto Gravagnuolo, 1981
È anzi esploratore di primitivismi atemporali, come negli elementi di legno grezzo che completano i suoi pezzi del 1985 (Abiti neoprimitivi, Domus 667, dicembre 1985), e promotore di un grande realismo “presentista” quando si tratta di identificare una nuova via di crescita per il design contemporaneo, come raccontano i punti programmatici della Domus Academy, di cui, dalla fondazione nel 1982, lui è direttore didattico: “Il design non è più oggi una disciplina basata su di una metodologia di progetto ‘infallibile’, come si credeva fino agli anni Sessanta; una disciplina, cioè, talmente razionale da risolvere qualsiasi genere di problema”, scrive su Domus 633. “Il rapporto tra l’uomo e i suoi oggetti sta rapidamente mutando”, continua, sostenendo che “fare oggi design significa di fatto concorrere alla progettazione di una nuova vita metropolitana. La città odierna non è più identificata dall'architettura, ma dal mercato, dalla merce che in essa circola”. E conclude scrivendo che “progettare quindi la merce significa (...) progettare nuove strutture urbane e un nuovo territorio culturale.”
Con gli anni ‘90, Branzi è sempre più profeta (parola che su Domus lo accompagna piuttosto di frequente) di una fluidità del pensiero che si immette in una “corrente di eventi che in ultima analisi simbolizza un Giotto computerizzato”, come dirà Germano Celant nel libro dedicato al designer fiorentino (Domus 750, giugno 1993).
La posizione è quella di un pensiero debole i cui prodotti, anche oggetti industriali, sono una continua interrogazione al presente, come quella inscenata dal grande orecchio della sua Folly 10 allo Tsurumi Riokuchi Park di Osaka (Andrea Branzi Folly 10 Osaka, Domus 730 settembre 1991). Il metodo operativo invece si àncora saldamente a due mezzi: gli oggetti industriali appunto, che fioccano sulle pagine dei Domus di tutto il decennio, e i testi, saggi, recensioni, editoriali-manifesto. Prende posizione sulla prossima e necessaria nascita di un Design Museum italiano (Intervista con Andrea Branzi, Domus 792, aprile 1997), e sui Saloni del Mobile (Domus 762, novembre 1994); ci lancia in viso la condizione del Design dopo Dio (Domus 787, novembre 1996), quel design che deve prendere coscienza di una profonda umanità del presente, fatta anche e soprattutto di consumo; annuncia poi l’avvento della logica fuzzy di fine millennio, del “pensiero lanuginoso che se non rappresenta più la purezza dei cristalli chimici e la precisione dei processi matematici, rappresenta però bene la realtà lanuginosa (fuzzy, appunto) della nostra galassia , del suo stadio evolutivo, nebuloso, indeterminato, latteo, tra massa e energia” (Domus 800, gennaio 1998).
Dagli anni 90 ritorna però saldo in prima posizione nella riflessione di Branzi quello che già era stato un suo tema principe: gli interni come paesaggio, carico di forti istanze architettoniche, sociali, artistiche, politiche (quelle cui abbiamo accennato pocanzi), che squaderna le scale ritenute proprie di ogni disciplina.
Interni sono gli uffici destrutturati e domesticizzati di “Citizen Office” (la mostra per Vitra realizzata con Sottsass e De Lucchi, che appare su Domus 751, luglio 1993) che anticipano di 15 anni le estetiche Silicon Valley e i loro ping-pong. Interni sono i modelli e le installazioni su cui Branzi lavora fino agli anni ‘20, i Dolmen, le Metropoli primitive, i suoi microambienti per fiori. Un interno quello in cui Domus organizza l’iconica cena del 2004 dove Branzi, Magistretti, Mari, Mendini e Sottsass si immergono Nel mondo degli oggetti (Domus 869, aprile 2004). Interni sono gli spazi del Forum per le Arti di Gent, progettato con Toyo Ito (Sponge Forum, Domus 887, dicembre 2005) che vanno a fondersi con la città circostante nella impalpabile onda di una spugna rimasta semitrasparente. Interni come paesaggio sono proprio le città, come il Grand Paris da restituire agli animali che lui propone nel 2018.
Interno per eccellenza è poi quello del suo spazio fisico e mentale di alimentazione culturale: la biblioteca, la “libreria emozionale” (Unpacking my library: Andrea Branzi, Domus 947, maggio 2011) che Branzi decide di dischiudere per Domus nel 2011. Si tratta del luogo dell’ultima disillusione sul design e sul potere delle sue narrazioni, che attinge a Céline (“Il design, ora, deve confrontarsi con questo nuovo senso di fine-epoca, e smettere di garantire il lieto fine. Continua a propinare divani, poltrone, lampade, invece di domandarsi dove andiamo a parare…”), ma che parla anche del luogo di un definitivo statement culturale di massima sintesi autobiografica quando si parla del Giovane Holden, come scrive Branzi nel 2011: “Ettore (Sottsass, Ndr) scriveva scimmiottando un po’ Salinger... Ecco, mi rendo conto ora che sono tutti i romanzi, o poesie virgole i libri che mi hanno influenzato veramente. mi dispiace, ma non c'è nessun testo di teoria del progetto di architettura. Non mi dicono niente, non ci posso fare nulla, anche pensandoci non mi sovvengono esperienze di lettura impressionanti… nemmeno Le Corbusier, che pure apprezzo, per le palle che ha saputo raccontare”.