Il testo è stato pubblicato su Domus 835 / marzo 2001, le fotografie di Mario Carrieri su Domus 677 / novembre 1986.
Massimo Vignelli
Per ricordare Massimo Vignelli, appena scomparso, ripubblichiamo il testo di Michael Bierut del 2001 con le fotografie, pubblicate nel 1986, del grande ufficio di Vignelli Associates al 475 di Tenth Avenue.
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- Michael Bierut
- 27 maggio 2014
Impossibile essere preparati alla prima visita all’ufficio di Massimo Vignelli nella West Side di Manhattan. Al 475 della Tenth Avenue c’è un solitario palazzo bianco che, dall’alto dei suoi quattordici piani, domina un circondario fatto di parcheggi, garage, piazzole della metropolitana e lotti ancora inutilizzati. La visita alla Vignelli Associates, che occupava l’attico di quell’edificio, cominciava di solito con la strana sensazione di trovarsi in una parte di New York curiosamente desolata: era forse per questo che, salendo in ascensore, ci si sentiva rassicurati dai nomi che apparivano ad alcune fermate lungo il tragitto – Gwathmey Siegel & Associati al terzo piano, Richard Meier al sesto.
Al dischiudersi delle porte, capitava di intravedere plastici architettonici protetti da bacheche in vetro, immacolati disegni sobriamente incorniciati: veniva da chiedersi se un luogo simile potesse realmente essere una mecca del design. Ma l’ultima fermata, al quattordicesimo piano, era tutt’altra cosa. Porte bianche dalle cornici massicce si spalancavano per dare accesso a una reception senza plastici sotto vetro, né disegni alle pareti. Al loro posto, si stendeva un pavimento grigio dall’inamovibile uniformità, circondato da pareti risolutamente bianche. Arrivati a questo punto, numerosi potenziali clienti si rendevano conto che forse la Vignelli Associates non faceva al caso loro e, di conseguenza, rendevano la loro visita quanto più breve la cortesia consentisse.
Eppure c’era sempre qualcuno che, varcata quella soglia, sentiva di essere finalmente a casa. Di solito erano persone che, nel compiere un giro dei millecinquecento metri quadrati dello spazio, si intrattenevano su ogni dettaglio: sulle cubiche stazioni di lavoro in legno, simili a dei Donald Judd, sulla lunghissima parete di acciaio galvanizzato e ondulato, sull’intimo volume della biblioteca, sull’effetto à la James Bond del lucernario piramidale che poteva esser chiuso sfiorando un invisibile pulsante.
Chi era lì per incontrare Massimo terminava il percorso nel suo ufficio. Seduti di fronte all’imponente lastra d’acciaio che fungeva da scrivania, con pareti rivestite di pannelli in piombo trattato a cera d’api sulla destra e, sulla sinistra, una vista da lasciar a bocca aperta sull’Empire State Building, lo sguardo cadeva inevitabilmente sulle uniche cose che c’erano sul tavolo: una matita portamine nera che riposava su un’ordinata pila di fogli bianchi.
Ho lavorato con Massimo per dieci anni, e come tutti gli altri nello studio avevo la mia brava copia di quella matita, con l’obbligatoria mina 6B. Era un punto sul quale Massimo non transigeva. Diversamente da molti altri designer, non gl’importava affatto d’essere imitato; al contrario, era orgoglioso di saper creare soluzioni che potessero essere replicate, sistemi talmente a prova di cretino che chiunque poteva rifarli. Ho sospettato talvolta che avesse il segreto desiderio (ma nemmeno così segreto) di progettare tutto quanto c’è al mondo: ma visto che ciò era impossibile, persino per un uomo della sua energia, aveva deciso di arruolare un esercito di discepoli, per far loro disegnare il mondo a sua immagine e somiglianza.
E ci furono giorni in cui questo sembrava possibile, giorni in cui si poteva volare a New York con American Airlines, trovare le indicazioni per la metropolitana, fare shopping da Bloomingdale’s, cenare da Palio, e persino pregare nella chiesa di Saint Peter: il tutto senza perdere di vista un logo, un sistema di segnaletica, una borsa per lo shopping, un servizio da tavola o un organo a canne disegnati da Vignelli. Con la moglie Lella, alcuni collaboratori di lungo corso come David Law e Rebecca Rose, e un sorprendentemente esiguo, sempre mutevole gruppo di designer, internisti e accoliti, Massimo riusciva a dar vita a una produzione che avrebbe fatto arrossire di vergogna studi dieci volte più grandi.
Sempre ottimista, mai cinico, aveva un insaziabile appetito per nuove sfide nel design, e affrontava ogni lavoro come se non avesse mai fatto nulla di simile prima. Persino la creazione di qualcosa di semplice come un biglietto da visita (e un biglietto da visita disegnato da Vignelli era sempre assolutamente semplice) richiedeva uno schizzo dopo l’altro, nei quali Massimo provava a convogliare pochi elementi fidati e una gamma di caratteri tipografici famosa per la sua essenzialità in forme nuove e sorprendenti.
Quando finalmente i pezzi si univano, nessuno era così genuinamente contento quanto lui. E c’è forse un sistema di vendita più efficace dell’entusiasmo genuino? È proprio questa passione ciò che molti tra i suoi critici hanno trascurato, quando hanno voluto accomunarlo ad altri designer dediti a una sterile forma di modernismo. Massimo, invece, si è sempre battuto per funzionalismo e chiarezza. Il razionalismo modernista richiede un autocontrollo assoluto, e giunge a idealizzare un certo tipo di negazione della personalità. I tratti distintivi di Massimo (le espressionistiche fasce nere nella grafica, i surreali contrasti di scala in architettura, l’inevitabile intrusione di sensualità nel design del prodotto) erano al contrario interamente intuitivi, gesti quasi auto indulgenti, cui gli era impossibile resistere, perché erano naturali come respirare.
Più avanti nella carriera, Massimo aveva cominciato a disegnare abiti che qualcuno un giorno affermò lo facevano sembrare “un sacerdote marxista a un pigiama party”. Ho ripetuto la battuta per anni fino a quando ho capito quanto fosse una perfetta descrizione della sua singolare combinazione di rigore dottrinale, fervore religioso, e gioia. Alla fine dell’anno scorso il contratto dello spazio al 475 Tenth Avenue è terminato, e l’astronomico aumento dell’affitto si è dimostrato impossibile da fronteggiare per Massimo e Lella, che hanno deciso di chiudere l’ufficio e trasferire lo studio a casa propria. Nell’ottobre scorso sono stato convocato per ritirare alcune cose che avevo dimenticato quando, dieci anni prima, avevo lasciato la Vignelli Associates. Entrare in quell’ufficio è stato come tornare a casa.
Il trasloco era già iniziato da settimane e le stanze erano quasi vuote, per quanto la differenza tra pieno e vuoto potesse un tempo essere sfuggita ai più. I Vignelli erano già andati via, impegnati com’erano nel rendere lo studio di casa loro un luogo in grado di ispirare timore in un’altra generazione di clienti e visitatori. Nell’ufficio di Massimo non c’era più nulla, ma carta e matita erano al solito posto. Ho impugnato la matita per lasciare un messaggio di saluto e la familiarità della sensazione tattile mi ha colto di sorpresa: sono infatti passato da molto tempo a comunissime penne nere, facili da trovare (e più facili da perdere). Quando ho dato un’occhiata a quel che avevo scritto, ho notato che la calligrafia aveva qualcosa di curioso. Era identica a quella di Massimo.