Magia dell'Amazzonia
di Pierre Restany
Per tutta l'estate la Fondazione Cartier ospita una mostra che illustra l'incontro spirituale avvenuto fra artisti contemporanei e sciamani Yanomami, una tribù di indiani che vive in Amazzonia, fra l'alto Orinoco e l'alto Paranà: i diversi momenti di questo incontro sono commentati o rivelati attraverso interventi degli artisti Claudia Andujar, Lothar Baumgarten, Vincent Beaurin, Raymond Depardon, Gary Hill, Tony Oursler, Naoki Takizawa, Adriana Varejão e Volkmar Ziegler.
Si tratta soprattutto di reportage fotografici, di riprese video, della ricostruzione di un'iconografia storica, di 'insegne' e installazioni che fanno riferimento all'habitat e ai comportamenti degli Yanomami, ai loro rudimentali strumenti di cacciatori e al loro villaggio principale: il watoriki, l'abitazione collettiva a forma di cerchio che ha al centro una sorta di arena, quasi una radura in mezzo alla foresta. Il tema dominante è lo spirito della foresta che gli sciamani sono riusciti a trasmettere agli artisti bianchi, venuti fra loro a condividerne la quotidianità e a testimoniarne lo stile di vita. Con il loro linguaggio gli artisti hanno fissato l'immagine, lo specchio o l'oggetto, le manifestazioni di una vita tribale fondata sulla cultura della foresta. Una cultura che è difficile cogliere attraverso l'osservazione puramente antropologica; a volte bisogna essere pronti a intuirla magari soltanto nel lampo fuggevole di uno sguardo, nella 'geografia' del tatuaggio facciale, nella gestualità rituale cui obbediscono i movimenti del corpo.
Pierre Restany
Ironico eroe di molte battaglie per l'arte contemporanea, Pierre Restany è stato una delle anime di Domus, il nostro critico più autorevole che per quarant'anni ci ha aiutato a capire il mondo attraverso una personalissima visione. In omaggio alla sua figura straordinaria, pubblichiamo il suo ultimo scritto, accompagnato dai ricordi di chi gli è stato amico e compagno di strada
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- 08 luglio 2003
- Milano
Gli indiani Yanomami, che vivono nudi nella foresta, compiono gesti dettati da una ergonomia millenaria, che li mettono in comunicazione diretta con le forze della terra e con lo spirito della foresta. Guidati dai loro sciamani, questi cacciatori vivono in una totale complicità con la natura che li circonda. È un legame così intimo che noi bianchi facciamo fatica a distinguere i diversi gradi di coscienza che stanno fra l'atteggiamento di guardia e vigilanza e lo stato di trance. Una volta ho risalito l'intero corso dell'alto Rio Negro, in una zona vicina al Rio Tiquiè, cioè proprio nell'immediata prossimità del territorio abitato dagli Yanomami. Ricordo di avere sentito molto fortemente in quella circostanza, a contatto con le tribù indigene, la forza misteriosa e incomunicabile della conoscenza profonda della foresta, della totale identificazione di una cultura con l'ambiente naturale in cui è inserita. È un'esperienza indimenticabile poter fissare nella memoria questi momenti estremi di una cultura fondata sulla completa identificazione dell'uomo con le forze della natura. È un sentimento che possiamo concepire con la mente, ma di cui ci riesce difficile cogliere la profondità reale. Bisogna innanzi tutto riconoscere l'enorme distanza che nella sfera affettiva ed emozionale ci separa da questi indiani della foresta: essi sono tutti degli iniziati e percepiscono l'ambiente che li circonda con un'acutezza che per le nostre capacità emozionali di uomini 'civilizzati' è ormai sconosciuta. Il viaggio nel cuore della foresta al quale la Fondazione Cartier ci invita è dunque un'esperienza percettiva di rara qualità, che ci permette di intravedere, fra tante precarietà, la ricchezza sottile di uno stadio anteriore della nostra vita sociale e individuale. A proposito di queste testimonianze di artisti contemporanei, si può dire che toccano il nostro senso dell'umanità? Quale grado di solidarietà ci ispirano queste espressioni primarie di una sensibilità della foresta? La mostra ci mette nella condizione di dare ai nostri sensi un significato fisico assoluto, che sfugge e va oltre i nostri riferimenti mentali: si può fare l'esperienza di un'operazione di "igiene della percezione". E non si può uscire dall'esperienza dell'universo degli Yanomami senza porsi le questioni fondamentali dell'umano che si risveglia alla coscienza del proprio ambiente naturale. Lo spirito della foresta è quello dell'uomo che si interroga su se stesso: e questa mostra rappresenta allora un vero ritorno alle fonti stesse della nostra umanità.
La lucertola e l'incantatore di serpenti
di Alessandro Mendini
Pierre Restany mi diceva spesso: "Sandro tu sei come una lucertola sul soffitto di una stanza, sembra che cadi e invece sei lassù". E io allora: "Pierino tu sei come un serpente incantatore, ma tieni gli occhi chiusi e strumentalizzi la lunga barba bianca". Era questa la nostra gag ripetitiva. Ed io, che ho pochi amici, mi sono sempre detto: Pierre è il mio solo, vero e intimo amico. Ma non ero possessivo e non ero geloso. In realtà sapevo, che così come con me, lui era vero e intimo amico amato da molta altra gente, in ogni angolo del mondo. E con ciascuno aveva abitudini, gag e cerimonie puntuali e specifiche. I suoi intimi amici siamo stati tantissimi, paritetici nel fruire della sua inesauribile abbondanza di idee. Prezioso a me, prezioso a tutti gli altri (e le altre!). Nell'ascoltare oggi l'affettuosa coralità delle reazioni emotive dopo la sua morte, mi chiedo se si abbia più nostalgia del personaggio o del critico d'arte. In realtà Restany ha strettamente sovrapposto le due cose: è particolare per aver vissuto in toto il romanzo della propria persona di critico, ha rappresentato la performance umana di se stesso, ha recitato la sua commedia dell'arte visiva, nel ruolo assieme di attore, di sciamano, sacerdote, protettore, apostolo, messaggero, custode. Pierre Restany non va perciò perimetrato. La sua sostanza è quella di un grande, avventuroso, preciso, specializzato inviato speciale dell'arte. Inviato dell'utopia cosmica dell'arte nella durezza del nostro mondo. Affabile, disponibile, generoso, esotico, illuminista, attento cronista. Tutti abbiamo avuto con Pierre aneddoti divertenti e delicati, copione perfetto per un film su mezzo secolo d'arte. Io e lui, per esempio, avevamo le nostre abitudini. E‚ lui che più di venti anni fa mi aveva proposto come direttore di Domus, quando ancora non ci conoscevamo, fu da allora il mio attento consigliere. Per anni, fino all'ultimo, sono andato a prenderlo all'Hotel Manzoni. Era seduto nell'atrio con la sua fila eterogenea di artisti questuanti, non negava attenzione, rispetto, e uno scritto a nessuno, come a dei fratelli. Esaurita la fila io e lui andavamo al 'Baretto' a mangiare. Sempre lo stesso tavolo, gli stessi suoi amici camerieri, deferenti e protettivi, lo stesso cibo goloso e colto il suo, arido e omeopatico il mio. Sempre tanti pettegolezzi, chiacchiere, la sua ipnotica cantilena, risate da lacrimare. Argomenti: le novità sulle donne in genere e di ogni tipo, poi le diagnosi epocali, l'analisi politica, le mostre, gli stupidi e narcisi critici d'arte, gli elenchi dei possibili futuri direttori di Domus, le strategie. Poi lo riportavo all'albergo, lo lasciavo lì, elegante nel suo abito sciupato, aspettavo che premesse il bottone dell'ascensore con la sua piccola e scheletrica mano. In quel ripetitivo momento sempre capivo che Pierre Restany, il romantico viaggiatore di una vita iper-vissuta, era l'uomo più solo del mondo.
Il critico come sismografo
by Hans Hollein
Quest'anno, all'apertura della Biennale di Venezia, mancava una persona che, come per un rito, sempre ci si aspettava di incontrare: Pierre Restany. Pierre era parte integrante della scena artistica e architettonica, per decenni l'ho visto a tutte le manifestazioni internazionali, l'ho sentito raccomandare all'interlocutore del momento le cose da vedere, e raccontare chi e che cosa aveva scoperto, sempre con lo sguardo in avanti, verso il futuro. L'importanza della sua figura si può paragonare a quella di uno strumento sensibile, un sismografo che sapeva cogliere il valore di manifestazioni ancora sconosciute, metterle a confronto, scriverne nei suoi articoli e nei suoi libri, parlarne nei dibattiti. Una volta che aveva scoperto qualcosa di nuovo, o qualcuno, e che ne aveva intuito l'importanza, lo accompagnava, lo sosteneva, lo incoraggiava nelle diverse fasi del lavoro. Tutta la seconda metà del Novecento è debitrice a Restany di un grande contributo da lui dato alla definizione dei movimenti e dei fenomeni artistici. Ai miei occhi era importante la sua capacità di spaziare su tutte le arti, senza limiti di alcun tipo. Per lui non c'erano confini fra architettura e arti visive: sapeva capire e trasmettere al grande pubblico gli sconfinamenti, gli accavallamenti, i "cross-over", come si direbbe oggi, convinto che tutto questo aiutasse a scoprire e a schiudere nuovi territori. Qualche decina d'anni fa, per esempio, trovai inaspettatamente su Domus un articolo di Restany che parlava della mia idea di architettura 'spray', un segno della sua capacità di comprendere gli sforzi e i tentativi che si proponevano di allargare l'idea dell'arte e dell'architettura (e anche la gamma dei media che potessero trasmettere questa idea). Già all'inizio degli anni Cinquanta Restany si muoveva su un enorme campo d'azione, da Yves Klein a César a Hundertwasser e per questo era incoraggiante: faceva sperare che si potesse guardare al futuro, e vederne gli sviluppi, da angolazioni diverse, e che fra le arti non ci sarebbe stata separazione ma simbiosi. "Alles ist Architektur, tutto è architettura", dicevo io allora. Oggi e per sempre Pierre ci mancherà.
Hommages à Pierre
di Maria Grazia Mazzocchi
"Qual è l'opera d'arte che preferisci?" ho chiesto a Pierre Restany un lontano giorno di giugno del 1975. "Ma naturalmente L'Origine du Monde di Marcel Duchamp!" mi ha risposto. Eravamo a Boston, e il giorno dopo siamo partiti per Filadelfia perché Pierre voleva farmi vedere di persona quest'opera. Non mi aveva preparato alla visione che mi si sarebbe dischiusa guardando dal buco della serratura della porta chiusa da Duchamp, e l'emozione provata allora resta ancora vivissima in me ancora oggi, dopo tanti anni. Ma quel che mi colpì maggiormente fu il comportamento di Pierre: allegro e felice, rideva, guardava e mi guardava, poi tornava a ridere con una gioia profonda che mi rimandava a entrambi i bambini che vivevano in lui: l'enfant prodige e l'enfant terrible. Ho cominciato a lavorare vicino al grande Superpierre (così lo chiamava James Wines) nel 1973, poco dopo la morte di Yves Klein. Malgrado la sua incredibile vitalità, Pierre portava in sé, in un luogo profondo del suo essere, questo lutto incancellabile per la perdita di quelle esperienze eccezionali che, accanto al grande artista del Nouveau Réalisme, gli avevano fatto gustare i livelli dell'estasi. Con Yves Klein, Pierre aveva vissuto la trasformazione profonda della vita e della natura attraverso l'arte, e questa trasformazione egli ha continuato a cercare per tutta la vita nei 'suoi' artisti, nei suoi amici, nei suoi amori, senza però mai ritrovare a pieno lo stato di grazia conosciuto negli anni dello stretto connubio con Klein. Impossibile seguire Pierre nelle sue peregrinazioni nel mondo dell'arte! Alla Biennale di Venezia non poteva fare due passi senza essere assalito dai suoi molti ammiratori: artisti, mercanti, colleghi, giornalisti, o dai numerosi questuanti che si rivolgevano a lui per consigli, informazioni, raccomandazioni varie… Solo a bordo di un aereo trovava un po' di pace, e così ha trascorso gran parte della sua vita in volo tra un continente e l'altro, portando la sua lucida critica, la sua profonda capacità interpretativa, il suo entusiasmo progettuale in ogni angolo del pianeta. Dal cielo mi mandava sempre messaggi, intesi a costituire una collezione molto speciale: a volte una vera lettera sulla carta leggera delle linee aeree, più spesso una cartolina, con messaggi brevi e intensi, che dal 1982, anno della fondazione di Domus Academy, terminavano sempre con l'augurio: "Ad majorem Domus Academiae gloriam!". Pierre ha amato molto Domus Academy, nata anche su sua ispirazione proprio da uno scambio di idee su un volo Milano/New York: ed è sempre stato l'ispiratore delle sue iniziative più belle, fino all'ultimo progetto elaborato insieme il Natale scorso, dei seminari con artisti di arti diverse provenienti da diverse parti del mondo, che chiameremo a sperimentare la possibilità di lavorare insieme. La "comunicazione planetaria" del potere di trasformazione dell'evento artistico era l'autentica missione di Restany, ed egli le è rimasto fedele, instancabile ed entusiasta, fino alla fine.
La leggenda che circonda l'uomo
di Nicolas Borriaud
La leggenda che circonda l'uomo ("Restany? Un mito", diceva Warhol) rischia di offuscare la ricchezza della sua opera e l'attualità delle sue idee. Non dimentichiamo che, in un periodo in cui ci si occupava ancora della querelle fra astrazione e figurazione, Restany creava gli strumenti concettuali che ancora oggi ci permettono di accostarci all'arte del nostro tempo. Restany ha dato il via a quello che si potrebbe definire il primo pensiero della storia dell'arte che faccia ricorso al concetto di uso: il Nouveau Réalisme è il Dadaismo considerato come un attrezzo (il Nouveau Réalisme, "40° sopra il Dada"), come la base di un linguaggio, e non come un feticcio da conservare nei musei. Ed è perché il critico d'arte francese più celebre del mondo non aveva mai assunto alcuna carica di tipo pubblico – per quanto ciò possa sembrare incredibile – che Jérôme Sans e io siamo stati così felici che nel 1999 egli abbia accettato di essere il presidente dell'associazione del Palais de Tokyo a Parigi. Una vita così piena, disseminata di intuizioni straordinarie, imperniata sulle battaglie teoriche, assistita da una rara eloquenza, gli procurò parecchi nemici. La sua fama internazionale ancora di più. Le sue doti e le sue capacità, i suoi sigari cubani, il suo modo di accostarsi all'arte attraverso la vita, la sua assoluta indipendenza, il suo disprezzo per la mentalità burocratica, le sue battute sferzanti gliene attirarono altri. Fino alla fine gli si è fatto l'onore di attaccarlo: anche recentemente, certi critici del tutto privi del senso del ridicolo hanno deriso e sbeffeggiato le sue interpretazioni di Yves Klein. Numerosi sono stati coloro che gli hanno fatto capire con aria di condiscendenza che la sua stagione era passata: proprio costoro dovranno presto accorgersi che l'eredità intellettuale dell'uomo del Nouveau Réalisme è ben più ricca di quanto si degnino di credere. L'appuntamento è fra qualche tempo, in un secolo che sarà più restaniano di quello passato.
L'altra metà dell'avanguardia
di Stefano Casciani
Ho conosciuto Restany nel 1979 a casa degli amici Lea Vergine ed Enzo Mari, quando appena arrivato a Milano iniziavo il mio apprendistato nell'arte collaborando a una grande mostra curata da Lea Vergine, "L'altra metà dell'avanguardia". Incalzato cortesemente, Pierre continuava a estrarre dal taccuino e dalla memoria nomi, ricordi, indirizzi e numeri di persone, ancora rintracciabili, che potessero ricostruire le vicende delle avanguardie del Novecento, attraverso il lavoro delle artiste donne. Con l'aria già da antico saggio, nulla lasciava trapelare della sua vigorosa vicenda esistenziale. L'avrei incontrato ancora a Domus di lì a pochissimo: l'incendiario organizzatore del festival del Nouveau Réalisme a Milano (con il sostegno dell'allora sindaco Aniasi), il reduce delle guerre perdute e vinte per sostenere l'originalità europea contro il conformismo pop, lo scanzonato protagonista dei fumetti ideati per Mendini e Maria Grazia Mazzocchi, convivevano serenamente in lui, che pure mai trascendeva da una natura profondamente umana. Con le sue debolezze e genialità, le sue risate e le sue collere, ha scritto come uomo e come critico pagine indispensabili a capire non solo l'arte, ma anche gli uomini e le donne che la fanno o semplicemente l'amano. Il ricordo più struggente rimane non l'ultimo addio nella chiesa di Saint Germain du Prè, ma un altro, più tenero e delicato come solo Pierre sapeva essere. In un passaggio dello spettacolo 70 Angels on the façade, allestito da Bob Wilson per i 70 anni di Domus, innalzato su un'improbabile zattera carica di oggetti memoria del design italiano, che veniva trascinata lentamente fuori scena da un carrello, Restany salutava con la mano il pubblico, che applaudiva lui, il design italiano e Domus. Società dello spettacolo? Forse, ma con un intellettuale attore protagonista d'eccezione.