La nostra visita a “The Poetics of Reason”, quinta edizione della Triennale di Architettura di Lisbona curata da Éric Lapierre (che abbiamo introdotto qui), parte dalla sede Central Tejo del MAAT, sulle rive del Tagus presso Belém. L’edificio di mattoni rossi e sottili vetrate verticali è una ex centrale termoelettrica: già convertita in museo negli anni Novanta, è stata ampliata da Amanda Levete Architects nel 2016.
Nella vecchia centrale incontriamo Lapierre, architetto, teorico e docente, per visitare la sua mostra “Economy of Means”. Lapierre insegna architettura a Paris-Est dove collabora con la stessa squadra che ha coinvolto per la realizzazione del programma curatoriale per la manifestazione lusitana. Ambiziosa e puntualmente diffusa nella città, questa Triennale è formata inoltre da progetti associati, attività educative, i Triennale Millennium bcp Awards, e si è conclusa con la conferenza Talk, Talk, Talk, presso la Fondazione Calouste Gulbenkian.
Lo scopo di “The Poetics of Reason”, per il suo curatore, è quello di “riaffermare oggi che l’architettura si basa sulla razionalità, tentando di definire la specificità di quest’ultima all’interno della disciplina”. Per spiegare la logica complessa di questa “razionalità architettonica”, Lapierre si serve di una metafora sulla colonna dorica, che è “allo stesso tempo elemento strutturale e scultura” sottolineando che “l’architettura è libera, è un valore aggiunto a una serie di necessità”.
Visitando “Economy of Means”, Éric Lapierre fa una considerazione sulla quale ritornerà spesso, a partire nella conferenza stampa che ha seguito il nostro incontro: “Dall’inizio del secolo siamo stati spettatori della diffusione di edifici iconici, che non aggiungono nulla all’esperienza collettiva dell’architettura”.
Nonostante Lapierre resti convinto che ogni buon edificio debba avere un’immagine forte, gli edifici di cui parla sembrano adagiarsi solo su questo aspetto: “Sono immagini che lasciano senza fiato, ma una volta che si è rimasti senza aria, non è più possibile parlare!”. Come conseguenza il curatore francese, vede un’assenza di spirito critico e la mancanza di un dibattito condiviso sull’architettura. Lapierre interpreta gli edifici iconici di cui parla come la traduzione architettonica della tendenza populista nella politica odierna, in quanto entrambi i fenomeni hanno origine da una banalizzazione.
Dall’inizio del secolo siamo stati spettatori della diffusione di edifici iconici, che non aggiungono nulla all’esperienza collettiva dell’architettura
Che cosa rende un’architettura razionale allora, gli chiedo. “Ciò che è razionale è intellegibile, ha una forma logica ed è quindi trasmissibile: l’architettura è una forma di conoscenza, ecco perché ho aperto la mostra con (un estratto di, nda) una illustrazione di Philibert de l’Orme, l’Allégorie du bon architecte[1]”. Questa rappresentazione del rapporto maestro-allievo vuole riportare l’attenzione dei visitatori sulla priorità che la trasmissione della disciplina riveste per il team di curatori, e che Lapierre avvicina per importanza alla logica costruttiva dell’architettura: “per noi è essenziale far emergere un dibattito, realizzare edifici che permettano di esprimere il disaccordo”.
Se ciò può pur suonare come una forma di nostalgia nei confronti dei “cari e vecchi tempi” della professione, sin dal titolo della mostra Lapierre vuole di legarsi ai problemi climatici di quest’epoca, dal riscaldamento climatico e alla scarsità di risorse senza precedenti, imputando proprio a questi edifici iconici di partecipare al prosciugamento di risorse divenute ormai preziose.
Ciò che è razionale è intellegibile, ha una forma logica ed è quindi trasmissibile
La mostra “Economy of Means” fa da contraltare a queste dichiarazioni, supportando le tesi del suo curatore attraverso una serie di riferimenti, eterogenei sia cronologicamente che per scuola, da Palladio a OMA. I progetti scelti sono rappresentati attraverso disegni e plastici, più che con la scala 1:1 del mock-up. La mostra mette al centro un approccio pedagogico, aderente alla volontà dichiarata della Triennale di aprire il dibattito sull’architettura a un pubblico più ampio.
Il cuore del ragionamento curatoriale si ritrova nella chiarezza cristallina delle dichiarazioni e nella selezione dei riferimenti. Talvolta però le connessioni fra questi ultimi risultano meno chiare, forse perché fondamentalmente alcuni punti circoscritti della mostra appaiono come una sorta di wunderkammer. Come sottolinea la mostra “Inner Space” di Mariabruna Fabrizi e Fosco Lucarelli (di Socks e Microcities), sempre a Lisbona, ogni architetto realizza per sé un immaginario sulla disciplina che si ridefinisce costantemente, come per sedimentazioni successive e continue. E cos’è la wunderkammer, se non il luogo in cui un individuo raccoglie nel tempo la sua collezione di riferimenti? In alcuni momenti della mostra quindi, alcuni concetti si mostrano attraverso l’immaginario del curatore, senza risultare connessi da una logica univoca.
Se si vuole ricercare cosa intende Lapierre quando parla di “architettura della ragione”, ci viene forse utile il suo testo L’ordre de l’ordinaire. Architecture sans qualités (2005). il chief-curator parla della “banalità architettonica” e contrappone i monumenti alle architetture utilitarie: i primi sono elementi singolari che incarnano l’idea che una società ha di se stessa, aventi un carattere di permanenza. Le seconde, principalmente intese come residenze, si costruiscono attorno ai primi e sono un “luogo comune” dell’architettura che reclama “la saggezza, la calma e la riservatezza”. Visitando “Economy of Means”, l’impressione è che Lapierre voglia valorizzare quella precisa pacatezza, modestia ed economia dell’edificio comune, senza che questo implichi la rinuncia a una dimensione espressiva dell’architettura.
Ed è così che sembra inquadrarsi un edificio in particolare che, nel percorso di visita, troviamo verso la fine, nella sala dedicata ai plastici delle architetture del XXI secolo. Una versione attualizzata e – a quel che ci viene raccontato – involontaria, della City of the Captive Globe koolhaasiana. Qui, fra gli altri edifici, il curatore si sofferma sul plastico della Railway Sleeper House di Shin Takasuga (1970).
Lapierre insiste sull’edificio tradendo una certa meraviglia: questo è realizzato con un unico elemento – dalle strutture agli arredi – ovvero da traversine recuperate dalle vecchie rotaie dei treni. L’edificio, nella sua “economia di mezzi”, rende evidente la sua logica, ed è assieme modesto ed espressivo: si potrebbe quasi definirla “un’icona sottile”. L’opacità che avevano destato alcuni momenti quasi-wunderkammer di “Economy of Means”, si dissolve in quella che leggiamo come l’incarnazione dell’“architettura della ragione” che Lapierre ha voluto raccontare attraverso “The Poetics of Reason”, manifesto di un’architettura radicalmente modesta e opportunamente contemporanea.
Shin Takasuga, Railway Sleeper House, Miyake, Giappone, 1970
In apertura: “Economy of Means”, vista della mostra, parte di “The Poetics of Reason”, Lisbon Architecture Triennale 2019, MAAT Central Tejo, Lisbona, Portogallo, 2019. Foto © Fabio Cunha
Nota: [1] “Allégorie du bon architecte” da Philibert de l’Orme, The First Volume of Architecture (Le Premier Tome de l’Architecture), 1567.
- Titolo della mostra:
- “Economy of Means”
- Date:
- 3 ottobre - 2 dicembre 2019
- Curatore:
- Éric Lapierre
- Parte di:
- “The Poetics of Reason”, Lisbon Architecture Triennale 2019
- Team curatoriale:
- Éric Lapierre con Sébastien Marot, Mariabruna Fabrizi, Fosco Lucarelli, Ambra Fabi, Giovanni Piovene, Laurent Esmilaire, Tristan Chadney
- Sede:
- MAAT Central Tejo
- Indirizzo:
- Avenida Brasília, 1300-598 Lisbona, Portogallo