åyr è un collettivo artistico fondato a Londra nel 2014 da Alessandro Bava, Fabrizio Ballabio, Luis Ortega Govela e Octave Perrault, il cui lavoro si concentra principalmente sulle forme contemporanee di domesticità.
Vi siete formati come architetti, ma operate principalmente in campo artistico. Come coniugate queste due diverse nature?
A.B. Il lavoro in campo artistico è nato da un rifiuto del design come composizione o soluzione di problemi, e la necessità di concentrarci su idee e ricerca: il mondo dell’architettura, della costruzione e del real estate non è molto ricettivo rispetto a pratiche giovani e con un output non convenzionale, quindi in un certo senso non avevamo scelta.
Mi piace la vostra definizione di personalità in HD (alta definizione), una personalità che è tanto più definita quanto più è divisa in singole parti. Come si traduce questo nel vostro lavoro?
A.B. Il nostro rapporto di collaborazione si evolve con le nostre vite, al momento viviamo in città diverse, quindi il nostro metodo di lavoro è molto cambiato rispetto a quando vivevamo tutti a Londra e condividevamo uno spazio di lavoro. Oggi åyr è diventato più simile a una piattaforma di ricerca, in cui portiamo avanti progetti anche individualmente, in coppia, o in collaborazione con agenti esterni.
Aspects of Change by AIRBNB Pavilion, Peckham
Aspects of Change by AIRBNB Pavilion, Peckham
Aspects of Change by AIRBNB Pavilion, Peckham
Qual è la vostra risposta all’estrema flessibilità delle forme di vita contemporanee?
A.B. Alla Biennale di Architettura del 2016, una nostra installazione all’interno del Padiglione Inglese voleva fare il punto sulle promesse mancate dell’architettura adattiva e temporanea. Un progetto architettonico ha il dovere di porre in questione lo status quo e non di accettarlo e limitarsi a renderlo più confortevole, più verde o più bello: mi riferisco in particolare a tutti i progetti che propongono di vivere in spazi sempre più piccoli e sempre meno confortevoli, favorendo flessibilità e precarietà. L’idea della mostra “Home Economics” e delle nostre Orbs era di spazializzare l’esperienza della realtà virtuale, quindi sottolineare il fatto che la flessibilità ci sia permessa grazie al fatto che una larga parte della nostra identità e senso di appartenenza – qualità essenziali della domesticità – siano vissute e realizzate su piattaforme digitali.
F.B. Le Orbs vanno anche capite nell’economia di una mostra che proponeva di mettere in scena “modelli”, quando invece noi eravamo interessati alle dinamiche inerenti all’abitazione dello spazio stesso della mostra. Non alla mostra come illustrazione di un progetto o rappresentazione di qualcosa di esterno ad essa.
I vostri lavori divengono via via più critici e personali, rispetto al mutamento del paesaggio domestico e alle sue ripercussioni sulla vita di tutti i giorni. In New Comers, addirittura, descrivete le vostre opere come oscure e violente. Cosa sta cambiando?
F.B. Non credo si possa parlare di un inasprimento. Il nostro lavoro ha sempre dipeso molto dai contesti fisici e sociali in cui abbiamo lavorato. La serie New Comers segue ad un progetto che abbiamo sviluppato da Bold Tendencies a Peckham – un quartiere di Londra che attualmente sta venendo rigenerato-gentrificato da intensi processi di speculazione edilizia e da un nuovo interesse da parte dell’industria creativa della città (artisti, galleristi, ecc.). Questa è una condizione tragica per le comunità locali e il nostro lavoro voleva incarnare questa tragicità – specialmente perché, in quanto creativi, siamo direttamente coinvolti in questi processi. Le opere sono rendering d’interno, sviluppati con un disegnatore professionista che lavora in una agenzia immobiliare di Londra. Sono immagini che “parlano” di aspirazioni e nuove opportunità, stampate in scala reale come se fossero dei grandi trompe l’oeil.
Nei vostri testi descrivete molto spesso un “individuo smart”, connesso tramite vari network a piattaforme online. Quanto c'è di autobiografico?
F.B. åyr è un progetto quasi interamente autobiografico, anche se è difficile parlare di una biografia quando si lavora in collettivo. Ma nei nostri testi è leggermente diverso. Nei testi incentrati sulle tecnologie a cui hai fatto riferimento cerchiamo sempre di carpire una soggettività latente ma inerente a ciascuna di queste tecnologie. In un testo pubblicato di recente su Harvard Design Magazine, ad esempio, ci siamo soffermati sulle tecnologie dette “smart”, analizzando il ruolo di queste ultime nell’economia del domestico e più propriamente nell’articolare le relazioni tra i membri di un determinato modello di nucleo familiare. In questo senso, abbiamo cercato di trattarle allo stesso modo in cui, in passato, figure come Margarete Schütte-Lihotzky (da architetto) o Robin Evans (da teorico) hanno trattato la cucina o il corridoio in quanto tecnologie operative nel definire un modello sociale. Ma nessuno di noi si sente rappresentato da questo modello, ne aspira a esserlo in futuro.
Questa intervista è parte di “Superdomestico. A dialogue on the new obsession for domesticity”, una ricerca a cura dello studio casatibuonsante architects e ciclo di conferenze promosse e ospitate da Ostello Bello, a Milano. L’obiettivo è quello di analizzare l’ambiente domestico e i suoi cambiamenti rispetto ai meccanismi del sistema economico contemporaneo.