“L’avanguardia non appartiene né ai gentili, né agli ebrei, ma è la situazione di tutti coloro che devono ribellarsi per riuscire a respirare di nuovo, e di questo gruppo fano parte numerosi ebrei”. In questa frase di Percival Goodman del 1961 è riassunta l’essenza della mostra “Designing Home: Jews and midcentury Modernism” allestita al Contemporary Jewish Museum di San Francisco e visitabile fino al 6 ottobre 2014.
Una nuova domesticità
La mostra “Designing Home” riflette sul valore corale di una generazione di pensatori di forme all’indomani della Grande Guerra e della perdita di fiducia nell’ottimismo funzionalista.
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- Francesco Zuddas
- 25 settembre 2014
- San Francisco
Presentata come la prima grande mostra dedicata all’esplorazione del ruolo svolto da architetti, designer e mecenati ebrei nella formazione di un nuovo panorama domestico nell’America del secondo Novecento, la mostra curata da Donald Albrecht può, infatti, essere letta principalmente come tentativo di evidenziare l’aspetto quantitativo o complementare del loro apporto allo sviluppo di un’idea di domesticità nuova per la società moderna americana del secondo Dopoguerra.
Le cinque sezioni in cui si articola l’esposizione presentano oggetti di arredo e design, progetti grafici per riviste, per grandi produzioni cinematografiche di Hollywood, e fotografie di alcuni interni domestici, come esempi di quel tentativo di ribellione proprio di uno spirito di avanguardia che coinvolgeva tanti all’indomani della guerra, e tra le cui fila militavano molti esponenti della cultura ebraica. Il notevole numero di questi ultimi potrebbe forse essere sufficiente a sostenere una tesi riguardo al ruolo trainante svolto da progettisti di estrazione ebraica nella formazione del pensiero progettuale moderno. Tuttavia, attraverso le scelte curatoriali, la mostra non si spinge ad affermare in maniera univoca in che modo proprio tale cultura, nelle sue pratiche e nei suoi rituali, riuscisse a impregnare di sé una nuova concezione di spazio domestico. La risposta è invece lasciata in parte alle capacità di sintesi del visitatore e, soprattutto, alle pagine del bel catalogo pubblicato dal museo di San Francisco.
I saggi presentati sono incentrati su una discussione dei rapporti tra ebraismo e società americana del secondo Novecento attraverso temi come il consumismo, la scalata sociale, l’assimilazione all’interno del popolo americano, il ruolo degli oggetti nella quotidianità domestica e nelle pratiche rituali. Sostengono, di fatto, la tesi di una naturale inclinazione della cultura ebraica a far proprie le tendenze che hanno dato nuova forma alla società urbana degli Stati Uniti – senza con ciò sottovalutare i rischi di una perdita d’identità che la società dei consumi e il meccanismo creato per consentirne la riproduzione, ovvero il sobborgo residenziale di massa, comportava per la comunità ebraica. Il catalogo è dunque un prezioso e necessario complemento per comprendere la profondità di significati dietro all’opera di una vasta compagine di architetti e designer nel periodo compreso tra l’immediato Dopoguerra e gli anni ’70.
Risulta così più chiaro il modo in cui gli oggetti della ritualità ebraica – riprogettati in chiave moderna a opera di designer come Ludwig Yehuda Wolpert, Moshe Zabari e Judith Brown – testimoniano di una cultura incentrata sullo spazio domestico, in cui la scansione dei principali momenti della costituzione dell’individuo nella società avviene principalmente all’interno delle mura di casa. Il fine non è dunque capire se lo spazio domestico che ne deriva – e l’associata idea di domesticità – sia in alcun modo originale o diverso rispetto a quello elaborato da altri architetti e designer non di estrazione ebraica operanti nello stesso periodo. Piuttosto, l’attenzione ricade sul carattere di comunità proprio di quell’avanguardia di cui parlava Goodman, che prescindeva dall’attribuzione di etichette e in cui l’apporto ebraico veniva in parte esportato dall’Europa come un insieme di germi moderni orientati ad infettare positivamente l’ideale domestico americano.
Nella costruzione di una nuova domesticità, infatti, molto – viene affermato nella mostra ed è difficilmente confutabile – paga un debito nei confronti della diaspora delle menti del Bauhaus arrivate in America negli anni tra le due guerre. Personalità come Josef e Anni Albers, Laszlo Moholy-Nagy e Marcel Breuer sono tra i nomi più noti per il ruolo che hanno svolto nell’importazione all’interno della cultura americana del progetto di quell’ideale di fusione tra arti e tecniche professato dalla Scuola di Dessau. A questo si affianca una pratica associativa che portò a riunire i principali esponenti della diaspora, insieme a tanti esponenti locali della cultura ebraica e non, in una serie d’istituzioni fondate sulle due coste. La prima sala della mostra insiste perciò sull’importanza dei network di persone e istituzioni, mostrando sotto forma di animazione video il ruolo svolto dal MoMA di New York, il Walker Art Center di Minneapolis, la rivista Arts & Architecture, il Black Mountain College in North Carolina, l’Institute of Design di Chicago e la Pond Farm a Guerneville in California.
Sono probabilmente la rivista di Los Angeles Arts & Architecture e il programma “Case Study Houses” da questa lanciato nel 1945 a essere entrati maggiormente nell’immaginario comune di un rinnovato pensiero nei confronti dello spazio domestico come luogo di aggregazione di una società non più tradizionale ma cosmopolita, in cui si sentiva il bisogno di ricucire il rapporto tra lavorare e risiedere che il funzionalismo canonico modernista aveva atomizzato.
Il nuovo pragmatismo proprio delle abitazioni progettate da architetti come Richard Neutra (alla cui casa progettata per William e Ilse Schiff con il fine di dare uno spazio agli elementi di arredo trasferiti da Berlino a San Francisco nel 1935 è dedicata un’intera sezione dell’esposizione), Pierre Koenig e Charles e Ray Eames e costruite sulla costa della California, è catturato nelle fotografie di Julius Shulman, che hanno reso iconico un nuovo stile di vita sulla West Coast.
Oltre alla costruzione architettonica – e alla sua condensazione in immagine attraverso la fotografia – la nuova domesticità del Dopoguerra si costruì anche attraverso una cultura di oggetti in grado di rivoluzionare una quotidianità sempre più improntata su una diversa proporzione tra il tempo del lavoro e il tempo dello svago, in cui quest’ultimo avrebbe a breve impregnato di domesticità anche lo spazio non propriamente residenziale. Tra gli oggetti di graphic design spicca così il lavoro di Alex Steinweiss, “inventore” delle copertine per i vinili della casa discografica Columbia, in cui un oggetto di una primordiale cultura di massa diventava, in rispondenza ancora alla fede Bauhaus, un pezzo d’arte accessibile a un più vasto strato sociale.
Al contempo, la cultura popolare veniva plasmata attraverso la forza immaginativa di Hollywood e il lavoro di Saul Bass per film come Exodus e Anatomy of a Murder di Otto Preminger, o Intrigo Internazionale e Psycho di Alfred Hitchcock, ricollocava il ruolo dei titoli di apertura da una posizione di pura marginalità e sovrastruttura ad una di compartecipazione alla totalità dell’opera d’arte.
Infine, l’America del Dopoguerra si è evoluta in larga misura attraverso la crescita delle grandi corporation, la cui fortuna è stata spesso associata alla costruzione di un’immagine identitaria fissata attraverso l’opera di graphic designer come Paul Rand i cui loghi per IBM e Warner Bros – tra i tanti da lui progettati – fanno di diritto parte inestricabile della cultura popolare del secondo Novecento. Se ancora ci fosse bisogno di ricordare il grande tentativo d’innovazione portato avanti all’insegna di un nuovo pragmatismo all’indomani della Grande Guerra e della relativa perdita di fiducia nell’ottimismo tecnicista e funzionalista del primo Modernismo architettonico, la mostra del Contemporary Jewish Museum offre la possibilità di riflettere nuovamente sul valore corale di una generazione di pensatori di forme.
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Fino al 6 ottobre 2014
Designing Home: Jews and Midcentury Modernism
The Contemporary Jewish Museum, San Francisco