Viaggiamo per quasi due ore su una strada del deserto settentrionale cileno, appena punteggiata da qualche cartellone, prima di trovare la nostra deviazione. Ci vuole un’altra ora su una strada che si arrampica serpeggiando su una montagna prima di arrivare a scorgere quel che siamo venuti a vedere. D’istinto accosto e mi fermo per scattare una foto. In lontananza, sul pianoro in cima a un’altura, vedo lo schieramento di 10 telescopi che costituisce il più progredito osservatorio astronomico terrestre: il VLT o Very Large Telescope.
Very Large Telescope
Con 10 telescopi e un'architettura pensata per resistere in un sito quasi extraterrestre, nel mezzo del deserto cileno di Atacama, il più progredito osservatorio astronomico terrestre è giunto di recente al suo quindicesimo compleanno.
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- Crystal Bennes
- 05 giugno 2014
- Atacama
Il VLT, giunto di recente al suo quindicesimo compleanno, e il suo sito quasi extraterrestre sono diventati famosi quanto le notissime immagini del cielo colte dai suoi apparati ottici. Naturalmente quella di collocare il VLT in un luogo tanto inconsueto e di tanta bellezza non è stata una scelta volontaria dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO, European Southern Observatory), l’organizzazione che gestisce il VLT. Ci sono state delle considerazioni puramente pragmatiche.
Il deserto cileno di Atacama è uno dei luoghi più asciutti del mondo. Con una piovosità annuale tra 1 e 15 millimetri, un cielo sgombro da nubi per 336 giorni l’anno e imponenti alture che significano punti d’osservazione appena un poco più vicini al cielo, il sito è stato scelto specificamente per ottenere le migliori condizioni di osservazione dalla superficie terrestre. Che lo scenario sia profondamente fotogenico, per non parlare dell’inaccessibilità alla grande maggioranza del pubblico dei fan dell’astronomia, si è rivelato una specie di vantaggio inatteso: le belle foto piacciono a tutti e quattordici telescopi in cima a una montagna nel deserto sono un gran bel soggetto fotografico.
L’alone mitologico che circonda il VLT e il suo remoto sito non ha fatto che intensificarsi nel 2002, quando gli astronomi dell’osservatorio si sono trasferiti dai loro rifugi dal tetto di lamiera in una nuova, bella sede. Con il progetto dello studio tedesco Auer+Weber la ESO ha ottenuto una volta di più un inatteso successo estetico di visibilità a partire da obiettivi prevalentemente funzionali. Il clima secco, se è propizio all’osservazione delle stelle, è molto meno soddisfacente per la condizione dell’uomo. Basta qualche ora all’esterno o nelle sale di controllo e ci si sente come dopo l’immobilità forzata di un volo intercontinentale: secchezza delle fauci, del naso e degli occhi. In primo luogo la Residencia è stata pensata come antidoto agli effetti fisiologici collaterali del lavoro al VLT. L’atrio di ingresso, mentre da un lato assomiglia a quello di un qualunque albergo moderno, con il portiere e l’arredamento di lusso, dall’altro è interamente invaso da un giardino subtropicale e da una piscina. Una piscina nel deserto è certamente una visione inattesa, ma si nota subito il cambiamento dell’ambiente fisico: l’umidità rende più facile respirare correttamente, gli occhi dolgono meno, il naso non è così secco.
Ma il punto decisivo, per il VLT e per la qualità istituzionale di curiosità del deserto e oggetto d’interesse della Residencia, è stato segnato qualche anno fa niente di meno che da James Bond. In 007 Quantum of Solace la Residencia aveva la parte del nascondiglio nel deserto del malvagio Dominic Green. E non c’è nulla come James Bond che manda in fiamme un edificio per assicurare a quest’ultimo un posto nella storia dell’architettura.
Guardo il tramonto dalla terrazza panoramica, al termine della mia prima giornata al VLT, a 2.600 metri sul livello del mare, cercando di raccapezzarmi sull’enorme distanza che in astronomia corre tra i dati e il sublime. Vedo i telescopi e vedo le belle immagini dello spazio pubblicate sulle riviste scientifiche, ma sono ancora perplesso su come si possa passare dagli uni alle altre. Forse con un po’ di ingenuità credo di aver sempre pensato che i telescopi scattassero fotografie come le scatta la mia Canon digitale, e che fossero quelle le foto pubblicate sulle riviste. Non so perché mi stupisca tanto venire a sapere che le cose in realtà stanno molto diversamente.
Per prima cosa l’immagine romantica dei cosiddetti astronomi del Settecento e dell’Ottocento, che puntavano il telescopio nel buio e passavano lunghe nottate a prender nota delle loro osservazioni, è superata da un pezzo. Come accade spesso nel caso dei grandi progetti scientifici (per esempio con il Grande Collisore di Adroni), le diffusissime immagini delle attrezzature tecniche del VLT, per quanto visivamente affascinanti dicono troppo poco della storia dell’altrettanto affascinante tecnologia ingegneristica che permette ai telescopi di osservare gli astri celesti. I quattordici telescopi che costituiscono il VLT non hanno bisogno di occhi umani. Ogni notte vengono catturati e scaricati dalle ottiche dei telescopi circa 20 GB di dati: per esaminarne una tale quantità occorrerebbero parecchie vite. In realtà quasi ogni aspetto dell’osservazione astronomica del VLT è gestito da un computer: il processo di scelta degli obiettivi cui dedicare il tempo di osservazione dei telescopi, l’ottimizzazione del programma d’osservazione in modo da garantire la più efficiente distribuzione del lavoro dei telescopi, l’osservazione stessa e la manutenzione periodica.
Il processo di calibratura, uno degli aspetti più affascinanti dell’ingegneria ottica, è anch’esso controllato dal computer. Ciascuna delle quattro unità telescopiche (le UT), del diametro di 8,2 metri, va calibrata rispetto alla posizione del corpo celeste che sta osservando in quel determinato momento. Ovviamente, dato che la terra gira, anche lo specchio deve ruotare per seguire il corpo celeste. E non è facile, con un’ottica di 8,2 metri di diametro che pesa quanto un jumbo jet a pieno carico (circa 23 tonnellate). Tuttavia, dato che ognuno di questi specchi poggia su un sottile strato d’olio, a spostare la lente basta una sola persona. Ancor più notevole è il sistema computerizzato di regolazione dell’ottica per facilitare che rende agevole il movimento del telescopio per seguire i corpi celesti.
Ciascuno specchio delle UT è dotato di quella che viene chiamata un’“ottica attiva”: un sistema di circa 150 attuatori collocati intorno al bordo dello specchio, che ne correggono la posizione quando si flette nel cambiare posizione. A riprova dei continui miglioramenti tecnologici applicati al Paranal, l’UT4 (il cavallo da tiro dell’osservatorio) è dotato di un sistema d’avanguardia per l’adattamento dell’ottica. Gli adattatori sono ancora presenti, ma reagiscono nell’arco di un secondo alle minime variazioni atmosferiche – le peggiori nemiche dei telescopi terrestri – rilevate da un laser che si proietta nel cielo dal centro del telescopio. Il sistema di correzione è così raffinato che nel corso dell’osservazione ci si accorge dell’istante in cui il sistema di adattamento entra in azione: il corpo celeste che si sta osservando, da lievemente sfocato, diventa in un battito di ciglia relativamente nitido.
Il concetto di nitidezza, ovvero la relativa chiarezza dell’osservazione astronomica, è curioso: inizio a sospettare che stia al centro del mio tentativo di comprendere il processo di formazione delle immagini. Nel corso dei due giorni della visita al Paranal sono stata così fortunata da trovarmi nella sala di controllo principale nella notte di una first light, ovvero, nel gergo degli astronomi, della prima osservazione registrata da un nuovo strumento. Sphere, così è stato battezzato il nuovo strumento, è stato progettato e finanziato da un consorzio francese appositamente per osservare i pianeti extrasolari. È stato necessario un lungo percorso di otto anni di raccolta di finanziamenti, di progettazione, di fabbricazione e infine d’installazione al VLT. Ci sono stati grandi applausi e grandi pacche sulle spalle, qualcuno ha aperto una bottiglia di champagne. Un momento straordinariamente commovente.
Il mattino seguente chiedo a Juan-Carlos Muniz, astronomo dell’UT3, di mostrarmi alcune delle primissime immagini catturate dal nuovo strumento. Dato che si tratta della prima prestazione di Sphere, spiega Juan-Carlos, lo strumento non ha fatto che puntare verso una stella per controllare l’effettiva precisione del puntamento. L’immagine che proietta sullo schermo è un rettangolo nero disseminato di un gran numero punti bianchi, con due puntini arancione sfocati, un po’ più grandi, in mezzo: sembra lo sfondo di un vecchio gioco di battaglie spaziali Atari. Nulla a che vedere con le immagini astronomiche che sono abituato a vedere. Nella postazione seguente un cordiale giovane neolaureato americano di nome Grant, che si sta specializzando sugli ammassi di galassie, mostra un’altra immagine. È un grafico tormentato, una linea arancione che oscilla su e giù come il profilo di una catena di montagne disegnata da un bambino su un’altalena. Sono dati spettrografici raccolti dall’UT2, i cui strumenti sono soprattutto dedicati alla spettroscopia. I miei vaghi ricordi sulla spettroscopia alle lezioni di chimica organica dell’università mi fanno venire in mente risultati di aspetto totalmente differente da questi grafici di puri dati. Chiedo a Grant di spiegarmi il significato del grafico e lui fa un generoso tentativo, ma alla fine ammette che non è facile come osservare e decodificare. Ci vogliono tempo e parecchie ore di confronto dei dati per svelare i misteri dei dati spettrografici. Mi colpisce una cosa che Grant butta là come un’osservazione senza importanza: “Per un astronomo, soprattutto per uno spettroscopista, in questo grafico c’è altrettanta bellezza, e forse di più, che nelle belle foto diffuse tra il pubblico”.
Ma se le immagini delle pagine di Popular Scientist non vengono direttamente dall’osservazione al telescopio – che assomiglia invece alla schermata di un videogioco degli anni Ottanta – da dove vengono? E per di più, se non sono particolarmente utili agli astronomi, perché vengono realizzate? Essenzialmente, a quanto pare, i rutilanti colori delle fotografie di remote nebulose sono un grande successo di pubbliche relazioni. Non sono i telescopi a scattare, come macchine fotografiche, foto pubblicabili: le immagini di osservazione sono più che altro simili a puri insiemi di dati, non particolarmente utili a comunicare i meravigliosi trionfi dell’astronomia al pubblico dei curiosi. Un’ultima conversazione con Juan-Carlos e con Francisco Rodriguez, dell’ufficio relazioni esterne dell’ESO (che è stato anche la mia eccellente guida locale) è particolarmente illuminante. Il fatto è che, nella sede centrale tedesca dell’ESO di Garching, abili progettisti grafici provvedono a creare, sulla base dei dati di osservazione originali e grazie a Photoshop e a una specie di stenografia, le spettacolari immagini roteanti che vengono diffuse in tutto il mondo.
Per riassumere le lunghe spiegazioni tecniche di Juan-Carlos: i colori di quelle belle immagini non hanno in realtà lo stesso aspetto di quelli del cielo. Vengono invece usati come una specie di stenografia. “È più che altro una questione percettiva”, spiega con filosofia. I toni fucsia o rossastri che compaiono nell’immagine di una nebulosa sono una specie di codice visivo che rappresenta valori come la temperatura (i toni più intensi del rosso generalmente indicano temperature più elevate, i toni azzurri il contrario) o la composizione chimica (i toni rossi possono anche indicare, per esempio, la presenza di idrogeno, dato che la lunghezza d’onda di 656 nanometri di H-alfa si trova verso l’estremità del rosso dello spettro). Mentre cerco di decidere se questa notizia è deludente oppure interessante, Juan-Carlos interrompe i miei pensieri: “C’è chi pensa che la scienza distrugga la magia della natura svelandone i trucchi, ma sapere che gli atomi del mio corpo sono arrivati da una stella morta da moltissimo tempo non rende la cosa meno stupefacente”. Alla fine decido che non è un cattivo punto di vista. I grandi progetti scientifici come il VLT e l’LRC hanno dovuto entrare nel gioco della creazione dei miti attraverso immagini parzialmente manipolate intese come uno dei tanti mezzi per raccogliere e conservare un più ampio sostegno di pubblico. Ma ciò non significa che nella meraviglia della gente, nel luogo, nella tecnologia, nella scienza e nelle immagini stesse la magia non ci sia più.
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