Pubblicato in origine su Domus 605, aprile 1980
Casa come me
I nostri rapporti con specifici eventi, o immagini, nel tempo, sembra talora si concentrino su frammenti, disparati e ossessivi, della nostra esperienza: siamo giocatori ed osservatori ad un tempo, come al biliardo. Chini su un punto del piano illuminato dal cerchio di luce, osserviamo, studiamo le traiettorie – immobili – poi calcoliamo e tiriamo. Fatto. Ora, speriamo. Passati dal buio alla luce, preso atto della presenza del piano e delle tre sfere (due bianche, una rossa) densi compatti atomi di storie passate, e di storie future – silenzio, attesa vogliamo metter le sfere in movimento. Colpendo le sponde, gli angoli. Facendo rimbalzare quelle immagini, quelle idee, nel campo di un attimo che sembra eterno ...
Ricordo ancora la sera, alla fine degli anni ’40 – a New York i tram correvano, nella neve, su binari ghiacciati – quando la prima volta mi imbattei in due immagini, provenienti entrambe dall'Italia, di un luogo fuori Roma, il luogo ove si stava costruendo la ‘Terza Roma’: due immagini, due fotografie, che ancora mi perseguitano, come avviene con certi paesaggi strani, che sentiamo misteriosi e presaghi, seducenti e pericolosi insieme; è la loro apparente dimensione bucolica che turba. In una foto, un paesaggio agreste con pecore al pascolo: in distanza, alto e bianco, un edificio composto, piano su piano, di archi in serie.
Scena attraente, sottilmente inquietante. Solo più tardi ne ho capito la surrealità, la genealogia dechirichiana.
L’altra foto, scattata dal basso, inquadrava, di fronte ai bianchi archi, un cavallo di marmo, impennato, zoccoli in aria, sul piedistallo.
La luce del mattino approfondiva le ombre delle silenziose cavità volumetriche. Nuvole dense, intorno, allontanavano la notte, e tutto aveva una luminosità iridescente, attraverso una plumbea e nostalgica, foschia di seppia. Due foto che esprimevano svuotamento, scavo; ma non scavo di terra rimòssa, bensì di aria spazzata. (Se in Ostia Antica vagano le nebbie sui sentieri, qui, nella ‘Terza Roma’, l’atmosfera è di cristallo, gelata. Ostia Antica, una romantica rovina archeologica affondata nel suolo. ‘Terza Roma’, una rovina ideologica appoggiata sul suolo. Scene vuote: ma disertata, l’una, da celebranti remoti, l’altra da furie non tanto remote).
Due foto che esprimevano un disastro passato e un pericolo a venire. Teatri, senza più attori da tempo, ma con le luci ancora accese. Dimenticate. Solo cinque anni dopo, nel 1953, mi avvenne di arrivare, una domenica mattina, in autobus, con mia moglie, alla reale ‘Terza Roma’: era ancora un luogo ‘in attesa’, irrisolto. Ci incamminammo verso il monumento centrale, l’edificio dagli archi vuoti, e ci rendemmo conto che quelle prime fotografie erano più essenziali, più assolute. Nel cambiamento di scala, nella presenza materiale, veniva a mancare qualcosa. Anche il silenzio (rumori di costruzioni in corso, martellamenti lontani... ).
I nostri occhi si fermarono allora su un’altra struttura, una grande struttura bianca, orizzontale, con un cubo emergente, coperto da una volta sottile. Sembrava una nave ferma. Una silenziosa presenza, attraente. Nessuno intorno. Porte chiuse ma non a chiave. Entrati in quei silenzi riposti, ci trovammo in una grande sala vuota, alta molti piani, attraversata da un sistema di scale a croce che salivano fino alla promenade di un tetto-terrazza, aperto sul malinconico paesaggio agreste. Qui, una gradinata di sedili in pietra, con le spalle alla campagna in attesa di immaginari raduni. Immaginari profili di teste rivolte a una scena vuota. In ombra. Sensazione opprimente di panico, inquietudine. Insorgere di riflessioni. Un moderno teatro totale, senza attori, né pubblico: solo il vibrare lontano di martelli pneumatici ... Più tardi ci dissero che quell’edificio-teatro era stato progettato da un architetto di nome Libera ...
La casa di Malaparte a Capri, come la pensò Libera, è una casa di riti e di rituali, una casa che immediatamente ci riporta, con brivido, ai misteri e ai sacrifici egei: un gioco anotico in una luce italiana
Mi avvenne spesso di pensare a lui. La domenica dopo andammo in pellegrinaggio a un altro monumento fuori Roma, le Fosse Ardeatine, il sepolcro dei più di cento ostaggi italiani (di età fra i 17 e gli 80) che i tedeschi avevano fucilato sul luogo. Si penetrava, passato un cancello, nelle labirintiche fosse, con ancora visibili nelle pareti i buchi dei proiettili. Qualche candela accesa. Angoscia. Dalle fosse si passava alle tombe: sotto una gigantesca lastra di cemento sospesa (di poco, la luce filtrava appena) una serie infinita di sarcofagi in pietra: su ogni bara una foto.
Tutte queste memorie me le ha suscitate una telefonata d’oltre Atlantico. Da parte di un redattore di Domus. Mi si chiedeva se conoscessi la casa di Malaparte a Capri. Risposi di sì. Mi si chiedeva anche se sapessi chi era Adalberto Libera. Risposi di sì. Sapevo che Libera era stato l’architetto di quella casa? No, ma potevo immaginarlo. Mi sarebbe piaciuto scrivere su quella casa? Di questo non ero sicuro. Malaparte era per me un personaggio inquietante, con delle oscurità. Anche Libera era inquietante, ma l'immagine di quel teatro della ‘Terza Roma’ continuava a provocarmi.
E ora questa telefonata improvvisa da Milano, nel 1980, per chiedermi di scrivere sulla casa disegnata da Libera, per Malaparte, nel 1940... Dovevo farmi detective, mettermi ad indagare nel passato di Malaparte, o di Libera? O di Domus? O aspettare? Decisi di aspettare, in attesa delle fotografie e delle piante della casa, che mi avevan promesso. Chiaramente, c’era sotto qualcosa di magico, in tutto ciò. Dovevo farmi medium? Le foto e le piante arrivarono davvero, e mi decisi allora a tentar di chiarire quelle coincidenze architettoniche strane ...
La casa di Malaparte, come la pensò Libera, è una casa di riti e di rituali, una casa che immediatamente ci riporta, con brivido, ai misteri e ai sacrifici egei: un gioco antico in una luce italiana. Ha a che fare con gli dei primitivi, e con le loro implacabili richieste.
Con l’inghiottire pietre e foglie e restituirle come mare e cielo. Con lo scegliere il bene o il male, e con l’inevitabile pathos dell’errore. Con il vuoto delle caverne e l’inaccessibilità del sole. Con il rifiuto dell’astrazione e l’incanto lirico. Ed anche con i dilemmi e i problemi del tempo nostro. La pianta è ambigua: può essere l’immagine di un programma, o non esserlo.
Fa pensare a qualcosa di precristiano – ecco. Una pianta che ricorda un remo – un remo funerario egizio, appoggiato alla parete in una tomba di Faraone, con il manico avvolto in giri di corda e la pala incisa di simboli – la vita del Capo, i trionfi del Capo ... È un’iscrizione, questa pianta. E non è facile trovarvi segnato l’ingresso, nascosto come nelle tombe. Ma una volta penetrati all’interno sembra, secondo i due disegni prospettici, di essere in un mondo sommerso – quattro finestre in due muri, aperte sul fondo di un oceano. Siamo in un sottomarino in esplorazione, fra scure stalattiti. Ci riscalda un luminoso camino, da un lato; dantesche figure di limbo dall’altro lato: al centro della parete di fondo, una porta ... Una porta che si apre silenziosa su un corridoio che termina con due alte porte... il bene? il male? Sta a noi scegliere, come nel cortile dell’Alhambra a Granada.
Una prospettiva elementare, ma carica di significato. Ci sfida a entrare in altri labirinti, senza uscita. Infine, sull’asse dell’ultima stanza, una finestra: aperta sull’orizzonte, linea inacessibile fra il cielo e il mare. La vediamo, la cerchiamo, non possiamo toccarla. Ci arrischiamo ora a tornare indietro? Le due prospettive sono segni del nostro ‘passaggio’, senza luogo né finale didattico. Al centro del grande ‘soggiorno’ galleggia una lastra biomorfa una fluttuante forma amebica espulsa dal profondo. Aspetta. All’esterno, il dramma è nel panorama, ed ha altri valori.
È il dramma dell’uomo e della natura, della nascita e della morte, della espansione e della compressione, del sacrificio e dell’accettazione. Elemento di primaria importanza qui è la scala, che sale e termina sulla superficie piana del tetto a terrazza. Ha una doppia funzione: porta, in salita, alla visione del cielo e del mare, e in discesa è invece una gradinata-teatro, in cui il pubblico (immaginario) siede con le spalle alla linea del mare e con gli occhi fissi ad un punto di fuga frontale. Un punto che scompare entro una buia cavità, circondata da piante e da rocce.
Immagine del buco del mondo da cui siamo entrati nel gioco della vita, e che ci inghiottirà al momento della nostra definitiva uscita. La scala-tetto-teatro ha una forma ad imbuto: stretta in basso, si allarga salendo. La prospettiva è capovolta. Arrivati alla sommità piana del tetto, se non vi fosse, come in realtà c’è, quella curva parete di muro che fa da quinta non avremmo un tal panico: perché, in realtà, la scala ci ha condotto al piano del sacrificio, e qui c’è una chiusura. Cosa c’è dietro? Il mistero più temibile, il nulla. La chiusura avvolge un vuoto. Siamo nel cuore di un rito antico. La scena è maestosa.
Isolata, esclusa, la casa Malaparte di Libera è un paradossale oggetto che si consuma in solitudine, pieno di storie senza risposta. Un relitto sulla roccia, dopo il ritiro delle acque. Un sarcofago di voci segrete, sussurranti di fati ineluttabili. Questa casa, e l’altro monumento di Libera, l’edificio-teatro della ‘Terza Roma’: relitti sulle acque di un’epoca di caos: potenti, tristi, nostalgici, come tutti i relitti, restano nella mente, interrogativi inquietanti...
John Hejduk, New York, 1 gennaio 1980