di Cristina Bianchetti
Manifesto del Terzo Paesaggio, Gilles Clément Quodlibet, Macerata 2005 (pp. 92, Euro 12,00)
Le piante che vegetano in condizioni ostili, compaiono senza preavviso, crescono inaspettatamente e poi muoiono in un luogo per rinascere a pochi metri, sono da sempre una figura chiave della métis: metafore di un’astuzia lontana dalla razionalità lineare, prevedibile e acquietante di tanta parte del pensiero moderno. In questo piccolo libro di Gilles Clément, paesaggista dell’École Nationale Supérieure pour le Paysage di Versailles, le piante sono veri e propri dispositivi dell’osservazione, rendono visibile il cambiamento, proponendosi come materiale di una riflessione sul paesaggio, l’agire e l’estetica.
1. Il paesaggio innanzitutto. Un paesaggio interstiziale che Clément chiama Terzo Paesaggio, nel senso di ciò che non è né luce, né ombra: un residuo, distinto sia dagli spazi mai sottoposti a sfruttamento (gli “insiemi primari”), sia dagli spazi protetti dell’attività umana (le ‘riserve’). Territorio frammentario, caricato di forte valore simbolico e, ciò nondimeno, residuo, indeciso, sospeso. Vera e propria friche che rende evidenti le smagliature nelle logiche di appropriazione, inclusione, specializzazione e messa a frutto dello spazio. Rifugio per le diversità naturali (alle quali ci siamo abituati ad attribuire una rilevanza pari, se non maggiore, rispetto alle diversità sociali che negli attuali ambienti urbani qualche sofferenza pure mostrano). Attorno a questa specie di spazi, si costruisce il testo di Clément, scandito in brevi capitoli che ripercorrono l’origine del Terzo Paesaggio, l’estensione, il carattere, lo statuto, le sfide, la mobilità, l’evoluzione, la scala, i limiti, i rapporti col tempo, con la società e con la cultura. Queste le 12 scansioni in cui è organizzato il Manifesto vero e proprio, come l’argomentazione che lo precede. Entro un linguaggio assertivo che ricorda un altro celebre Manifesto, collettaneo, di qualche anno fa (Mouvance. Cinquante mots pour le paysage, Paris, 1999), il Terzo Paesaggio è mutamento, vitalismo, slittamento continuo per adattamenti successivi, nei quali si alternano momenti di choc darwiniano e momenti lenti di tipo lamarkiano. Mouvance, appunto, come affermazione di un ordine biologico.
2. L’agire sul Terzo Paesaggio è andare con, non contro la natura, assecondare, osservare e intervenire il meno possibile. Sfuggire le regolazioni, rimanere nel disinteresse. Sfuggire dall’assunzione dal voler creare modelli. Il gioco di lasciare le cose come stanno (e come evolvono) non elude evidentemente la decisione. L’azione c’è dunque ed è in modo tradizionale, sapiente, mette in gioco le capacità di osservazione, classificazione, deduzione. È quella dello scienziato, non del bricoleur, benché anche in questo caso si parta da quel che c’è, si cerchi di trasformare le circostanze in occasioni. Ma il giardiniere osserva, cumula esperienza. E il giardino è un laboratorio nel senso delle discipline più dure, uno spazio chiuso. Anche quando è planetario comunica una sensazione di finitezza (Clément, Le jardin planétaire, Paris, 2000). Il microcosmo dilatato del giardino è ciò entro cui si fissano, come osserva Maria Valeria Mininni, salde, le radici di un’idea diversa di natura piantata bene dentro la contemporaneità. Non è più eterotopia autistica, l’altrove nella trama della città moderna. Ma neppure la prefigurazione di una città possibile, utopia e forma simbolica di un equilibrio, luogo entro il quale mettere a punto idee sull’urbano. Due forme, quelle dell’eterotopia e dell’utopia, che hanno costruito un legame importante tra giardino e città, sul quale alcuni urbanisti (Bernardo Secchi per esempio) hanno insistito. Qui il piano è ribaltato. La città sbiadisce. In primo piano ci sono le friches.
3. Forma. Il giardino non è un patrimonio: ulteriore radicale disassamento nei confronti del pensiero urbano. Non è qualcosa che possa tramandarsi, che abbia valore per questo. Né richiede un approccio estetico nel senso più comune, quanto un’estetica legata alla scienza (su ciò la postfazione), che tuttavia gioca con il décalage, il salto di scala, il sorprendente. Sfidando il dadaismo e lasciando decisamente alle spalle i concetti duri, ritagliati su uno sfondo (Mininni) di green belt, fingers, green hearts, con i quali si è lavorato, almeno durante tutti gli anni Novanta, riprendendoli da esperienze lontane e riadattandoli alle più recenti preoccupazioni di una pianificazione che si vuole sensibile al paesaggio.
I libri di Gilles Clément sono sicuramente interessanti e bene si collocano nell’attenzione sempre più evidente (anche nella forma delle traduzioni e pubblicazioni) di testi perlopiù maturati entro il campo dell’esperienza francese. Sono interessanti per la capacità di ricollocare, raccogliere e riportare “a proprio modo” (e perciò con un atteggiamento astuto, quanto quello delle piante a lui care) idee trasmigranti in campi diversi del sapere. L’elogio degli spazi sociali residui, interstiziali, eversivi degli ordini economici e simbolici è presente da tempo entro tradizioni di studi sociali. Ritrovarlo entro un pensiero ecologico, più facile a scivolare nel dogmatismo, non può che rendere il gioco affascinante. Questo è uno di quei libri che a ragione della sofisticatezza invitano a esplorare i loro stessi margini: quei territori della riflessione che sono, per mutuare i termini qui proposti, né luce, né ombra.
Attorno all’accezione rigida della nozione di regolazione, per esempio. O allo statuto del Terzo Paesaggio come frammento condiviso di una coscienza collettiva. Ma anche attorno a un linguaggio iconografico così vicino a quello dell’urbanistica funzionalista, concettualmente lontanissima. Anche un libro ha i suoi territori delaissé: luoghi nei quali un sapere altro si è ritratto, che oggi ci paiono meno sorvegliati e, in quanto tali, occasioni di sviluppo del pensiero. E quello di Clément, è, in fondo, un invito a ritrovarli.
Cristina Bianchetti Docente di Urbanistica a Torino
Il terzo paesaggio
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- 06 febbraio 2006