Leggenda della grafica americana del secolo scorso, Paul Rand è stato il più strenuo difensore della atemporalità del modernismo: una tesi che ha sostenuto tutta la vita, anche quando l’avvento del post-modernismo e della computer grafica hanno reso la sua posizione più attaccata e attaccabile. Il vigore delle sue convinzioni, da molti definite ostinate, non scaturiva dalla mera ammirazione formale per l’estetica rarefatta della grafica svizzera, di cui è considerato il primo interprete negli Stati Uniti, quanto per un presupposto di astrazione necessario ad asservire la funzione sociale della sua professione. Non a caso, il design è stato per Rand una modalità per gestire un’economia di segni rendendola rimarcabile, memorabile, facendo presa su un immaginario collettivo e asservendo così alle esigenze commerciali a cui il design, in qualità di veicolo e interprete, ha il dovere di sottomettersi.
Paul Rand
“Ci si rende presto conto che la semplicità e la geometria sono il linguaggio di atemporalità e universalità” Paul Rand
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Fu del resto nella bottega di alimentari del padre che Rand, al secolo Peretz Rosenbaum, iniziò ad affinare fin da giovanissimo il suo senso della composizione disegnando cartelli e piccole pubblicità. Sebbene negli anni successivi non avesse rinunciato ad un’educazione formale, frequentando il Pratt Institute e la Parsons senza mai laurearsi, Rand si è sempre definito soprattutto un autodidatta in virtù della gavetta attraverso la quale, tra piccoli clienti occasionali e il lavoro per i giornali, si era fatto le ossa fin da giovanissimo. Risale a questo periodo la sua volontà di cambiare il suo vero nome in Paul Rand: un passaggio, si guardi bene, finalizzato non tanto e non solo a dissimulare le proprie origini ebraiche con un’identità di impronta WASP, ma anche un tentativo di sintetizzare e rendere più efficace il suo nome, aumentandone la presa grazie alla simmetricità delle quattro lettere di nome e cognome, ripensati come un vero e proprio marchio.
Il lavoro di Rand rimarrà ineludibilmente legato alla progettazione delle più grandi identità di marca americane, a cui conferirà un indelebile gusto per l’astrazione mutuato dai grandi riferimenti artistici – in primis De Stijl, il costruttivismo russo, il Bauhaus, e quindi l’opera di artisti quali Paul Klee, Alexander Calder, Joan Miró – a cui ha sempre dichiarato di ispirarsi. A questo controllo del segno si sposerà poi un gusto audace per la tipografia, veicolo del rinnovamento e dell’ottimistico spirito del tempo, con cui Rand si divertirà a sperimentare in combinazione con le tecniche del collage e del montaggio, soprattutto nel campo delle numerosissime collaborazioni editoriali per cataloghi e giornali, tra cui Esquire-Coronet, Apparel Arts e, soprattutto, Direction. Incarichi, in particolare quello per Direction, svolti anche gratuitamente a patto di poter conservare la massima libertà creativa, senza compromessi e vincoli di mandato.
Tra le sue corporate identity più note, tutte estremamente longeve, la più celebre resta probabilmente il logo dell’IBM. La prima versione da lui disegnata, del 1956, andrà incontro a due successivi restyling, fino ad arrivare nel 1972 a quella tutt’ora in vigore. Qui, i caratteri pieni vengono sostituiti da otto linee orizzontali che danno dinamismo al marchio e, molto pragmaticamente, permettono una qualità di riproduzione ottimale con le fotocopiatrici dell’epoca. Sempre per IBM, di cui è stato consulente per decenni peraltro insieme ad un parterre di designer d’eccezione tra cui Charles e Ray Eames e Eero Saarineen, Rand realizzerà nel 1981 quello che è considerato il suo poster più un iconico e longevo, forse uno dei più celebri della grafica del ‘900. Reinterpretato come un rebus, il logotipo vede la propria I sostituita dal disegno stilizzato di un occhio, e la B da un’ape: la pronuncia “EYE-BEE-M” coincide con l’acronimo dell’azienda.
Saranno molti, poi, i progetti che si affermeranno di buon titolo nella vita quotidiana e nell’immaginario di moltissimi americani, tra cui il logo del canale televisivo ABC, quello per UPS - l’unico ad essere oggi radicalmente ridisegnato - e ancora quello per Westinghouse. Tutte proposte per cui Rand non rivendicherà mai un vincolo di riconoscibilità con il settore o il mandato dell’azienda, quando la necessità di essere, anche nella loro totale arbitrarietà, originali e distinte dalla concorrenza. Per la presentazione dell’identità coordinata della NeXT Computers di Steve Jobs, Rand elaborerà in una vera e propria pubblicazione tutto il lavoro di analisi che lo aveva portato all’identificazione della proposta finale. La sua politica, che non prevedeva la progettazione di molteplici opzioni alternative quanto di un’unica possibile soluzione grafica, conquisterà senza mezze misure Jobs, che resterà uno strenuo ammiratore della sua visione.
Se la visibilità conquistata nel mondo corporate resta la più forte, è importante sottolineare anche il proficuo impegno didattico e teorico svolto dal 1956 al 1992 dalla cattedra dell’università di Yale. “Thoughts on Design”, pubblicato prima nel 1947 e poi nel 1970 in edizione aggiornata, rimane il suo principale manifesto progettuale, dove esprime il senso di universalità a cui la migliore grafica deve aspirare, integrando senza forzature la forma e la funzione e veicolando con semplicità e modestia concetti vividi. Un design non eccentrico, dunque, ma al contrario capace di traghettarsi dal mondo della prosa a quello della poesia attraverso l’individuazione di simboli visivamente eleganti e concettualmente efficaci.
Tra i lasciti del suo lavoro non manca poi un significativo contributo architettonico. Progettata nei primi anni ’50 insieme alla prima moglie Ann Binkley, allieva di Mies Van der Rohe al Illinois Institute of Technology, la Rand House è un esempio gioioso di architettura Mid-Century, una costruzione senza facciata, intima e accogliente, dove pareti in pietra e vetrate a tutt’altezza dialogano con la natura circostante. Qui, anche in seguito alla nascita della figlia Catherine, la coppia inizierà a concepire insieme una fortunata linea di libri per l’infanzia, di cui “I Know a Lot of Things” (1957) e “Little One” (1962) restano i titoli più celebri. Ed è sempre tra i boschi del Connecticut, al riparo da quella New York che ha sempre rappresentato l’epicentro della sua attività professionale, che Rand continuerà a vivere e lavorare fino al 1996, anno della sua morte. Numerosissimi i riconoscimenti che gli sono stati conseguiti nel corso della sua carriera: già nel 1953, riceve dalla Royal Society of London il premio di Royal Designer for Industry, mentre è del 1972 l’ammissione nella Hall of Fame dell’Art Directors Club di New York. I suoi progetti sono oggi nelle più importanti istituzioni museali del mondo, tra cui lo Smithsonian e il Museum of Modern Art di New York.
È un idealista e un realista, usando il linguaggio del poeta e dell'uomo d'affari
László Moholy-Nagy