Marina Abramović

Ripercorriamo la carriera dell’artista serba, diventata una tra le figure più controverse e discusse, nota in tutto mondo. Dagli esordi negli anni ‘70 fino alle performance che l’hanno consacrata e alle sue opere più recenti.

Marina Abramović è conosciuta in tutto il mondo per le sue performance e pièce provocatorie in cui oltrepassa, a volte drammaticamente, il dualismo corpo e anima, artista e persona. Offrendo sé stessa al pubblico come strumento di sperimentazione, Abramović ha riconfigurato le soglie del dolore e della resistenza fisica e psicologica.  Nasce a Belgrado, ex Jugoslavia, il 30 novembre del 1946, in una famiglia benestante, e trascorre i primi anni con la nonna materna, Milica. L’accesa fede ortodossa di Milica esercita su Marina un’influenza profonda. Lontana dai genitori Vojo e Danica, partigiani durante la Seconda guerra mondiale e in quegli anni impegnati nella dirigenza del Partito comunista del generale Tito, Marina tornerà a vivere con loro solo nel 1952, anno di nascita del fratello Velimir. Nonostante il tumultuoso rapporto con la madre, sin dall’infanzia Marina trova rifugio nel suo amore per l’arte, in particolare il disegno e la pittura.

Marina Abramovic, film still from Body of Truth, © Indi Film, 2019

Tra il 1965 e il 1970 studia pittura all’Accademia di Belle Arti di Belgrado, e perfeziona i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Zagabria, in Croazia. Nel 1971 sposa l’artista concettuale Neša Paripović, e nel 1973 incontra Joseph Beuys, considerato uno degli artisti più importanti e controversi della seconda metà del XX secolo. Marina è profondamente affascinata dagli happening di Beuys e dalle contaminazioni del movimento Fluxus. Nello stesso anno collabora con l’artista austriaco Hermann Nitsch, noto per le sue opere viscerali e una pratica artistica legata al rituale del sacrificio.  Gli incontri con Beuys e Nitsch allontanano irrimediabilmente Marina dall’arte figurativa. A partire dagli anni ’70, la sua ricerca è caratterizzata da un’espressività più astratta, legata al suono e alla performance. Realizza in questo periodo una serie di performance in cui il suo corpo è protagonista e medium. In “Rhythm 10” (1973), presentata presso il Museo d’Arte Contemporanea di Villa Borghese a Roma, pugnala metodicamente gli spazi tra le sue dita con un coltello, ferendosi. In “Rhythm 0” (1974), presso lo Studio Morra di Napoli, rimane immobile per sei ore in una stanza con 72 oggetti che il pubblico era incoraggiato a usare su o contro di lei; tra questi anche una rosa a una pistola carica. Autolesionismo e nudità sono elementi che da allora ricorrono nella pratica di Marina, attirando sull’artista crescente interesse e polemiche.

Abbiamo tutti paura della sofferenza, della mortalità. Quello che facevo in Rhythm 0 era mettere in scena queste paure per il pubblico: usare la loro energia per spingere il mio corpo il più lontano possibile.

  

Il 1975 è un anno spartiacque nella vita artistica e sentimentale di Marina, nonché l’inizio di quelli che a posteriori definirà “alcuni degli anni più felici della mia vita”. Nel corso di un incontro internazionale di artisti performativi ad Amsterdam conosce l’artista tedesco Frank Uwe Laysiepen, noto come Ulay. È l’inizio di una collaborazione artistica simbiotica che segnerà indelebilmente la vita di entrambi. Nel 1976 Marina divorzia da Paripović per trasferirsi con Ulay ad Amsterdam. Da allora, la coppia intraprenderà lunghi viaggi in giro per l’Europa a bordo di un vecchio furgone Citroën, in compagnia del cane Alba. Quest’esperienza porterà alla realizzazione della serie “Relation Works” e del manifesto “Art Vital”. 

Non avevamo soldi, ma ci sentivamo ricchi: il piacere di avere del pecorino, qualche pomodoro dell’orto e un litro d’olio d’oliva; di fare l’amore in macchina, con Alba che dormiva tranquillamente nell’angolo, era oltre la ricchezza.

Nel 1980 realizzano “Rest Energy”, performance che nella sua tacita tragicità sa raccontare la loro tormentata storia d’amore: Ulay e Marina sono l’uno di fronte all’altra, in equilibrio precario all’estremità opposte di un arco teso, con una freccia puntata al cuore di lei; Con un solo dito, Ulay avrebbe potuto ucciderla. Dopo un breve periodo ad Amsterdam la coppia si trasferisce in Australia, dove trascorre nove mesi nella tribù Pintupi nel Gran Deserto Victoria. “Nightsea Crossing”, allestita presso Documenta 7 nel 1982 e in spazi a Colonia, Düsseldorf, Berlino, Amsterdam, Chicago e Toronto, è frutto dei mesi trascorsi a stretto contatto con la cultura aborigena. La performance consiste in un atto di coppia prolungato di meditazione e concentrazione, nato dallo studio della tecnica meditativa del vipassana, appresa  in India, dove Marina e Ulay incontrano il Dalai Lama e il suo mentore, il tulku Kyabje Ling Rinpoche. 

Far ridere la gente per aprire il loro cuore, per poi rivelare verità terribili
  • Marina Abramovic intervistata da Kadish Morris per The Guardian, 12 Feb 2022

Nel 1986 la coppia vola in Cina per la prima volta, per lavorare all’ambiziosa realizzazione di una performance lungo la Grande Muraglia Cinese. Nasce la celebre opera “The Lovers”, una lunga camminata che sancisce la fine della loro relazione e collaborazione artistica durata 12 anni. Marina parte dall’estremità orientale della Muraglia, mentre Ulay dal lato occidentale, procedendo in direzione opposta fino a incontrarsi per scambiarsi un ultimo, lacerante quanto sereno, saluto. 

  

Negli anni seguenti, Marina si dedica alla creazione di oggetti interattivi noti come “Transitory Objects” pensati “For Human Use”, realizzati tramite la combinazione di materiali diversi tra cui quarzo, ametista, tormalina, rame, ferro e legno. Si trasferisce a Parigi nel 1990 e viene invitata a partecipare all’esposizione “Magiciens de la Terre” presso il Centre Pompidou. Tra il 1992 e il 1993 l’opera “The Biography”, diretta da Charles Atlas, è rappresentata a Madrid e in seguito a Documenta 9 a Kassel, e nei teatri di Parigi, Atene, Amsterdam e Anversa. Marina e Atlas usano l’autobiografia come principio strutturante diacronico finalizzato a un’indagine sull’identità. Con Atlas lavora inoltre alla pièce autobiografica “Delusional”, una performance multimediale e teatrale in due atti. Nel 1997 è invitata a rappresentare la Serbia e Montenegro nel Padiglione jugoslavo della Biennale di Venezia. Fa clamore con la performance “Balkan Baroque”, allestita in uno scantinato buio del Padiglione Centrale ai Giardini. Durante la performance, durata sei ore al giorno per quattro giorni, Marina siede su un mucchio d’ossa di bovino che ripulisce dalla carne e dalla cartilagine residua, in un rituale di purificazione etica e denuncia delle stragi di pulizia etnica dei Balcani. L’opera vale all’artista il Leone d’oro.

Marina Abramovic, ©FilipVanRoe, 2018

Nel 2001 inaugura il progetto interattivo “Dream House”, installazione permanente realizzata in collaborazione con la Triennale di Arte Contemporanea Echigo-Tsumari, in Giappone. Gli ospiti sono invitati a indossare pigiami disegnati dall’artista e dormire in letti realizzati appositamente per il progetto, per raccontare i loro sogni, la mattina seguente, nel cosiddetto “Dream Book”. Nello stesso anno, Marina realizza la performance “Mambo a Marienbad” presso l’ospedale neuropsichiatrico di Volterra, luogo che dà voce a una storia personale di follia creativa e profondo disagio. L’anno successivo trascorre dodici giorni in silenzio e digiuno davanti ai visitatori della Sean Kelly Gallery di New York per la performance e installazione pubblica vivente “The House with the Ocean View”. 

Solo strati di significato possono conferire lunga vita all'arte – in questo modo, la società estrapola dall’opera ciò di cui ha bisogno nel tempo

Nel 2005 il Solomon R. Guggenheim Museum di New York presenta “Seven Easy Pieces”, una “re-performance” composta da sette reinterpretazioni di opere degli artisti VALIE EXPORT, Vito Acconci, Bruce Nauman, Gina Pane, Josef Beuys e sé stessa.  Il tema delle “re-performance” ricorre nella retrospettiva “The Artist is Present”, allestita nel 2010 presso il MoMA di New York. Il titolo della mostra è dato dall’omonima performance di Marina, in cui siede in silenzio a un tavolo di legno sette ore al giorno per tre mesi, mentre i visitatori del museo, a turno, le siedono di fronte. L’artista incontra lo sguardo di 1.000 sconosciuti senza scambiare una parola; Alcuni di loro si commuovono fino alle lacrime. 

  

Nel 2016 la Penguin pubblica la celebre autobiografia “Walk Through Walls. A Memoir.”, pubblicata in Italia l’anno successivo. Scatena polemiche un passaggio del libro in cui Marina si riferisce agli aborigeni australiani paragonandoli a “dinosauri dai grandi torsi e gambe a bastone”. Nello stesso anno, tra le email pubblicate da WikiLeaks prima delle elezioni presidenziali statunitensi, appare un messaggio della Abramović indirizzato al fratello di John Podesta, interpretato dal conspiracy theorist Alex Jones come un invito a un rituale satanico. Questi episodi testimoniano le controverse speculazioni che da sempre contraddistinguono la carriera dell’artista, che ha smentito fermamente le accuse in due interviste con il Guardian.  Oggi Marina continua la sua attività presso il Marina Abramovic Institute (MAI), una fondazione non-profit dedicata alla performance art. In particolare, il MAI promuove esperienze pubbliche partecipative all’insegna del cosiddetto “Abramovic Method”, un ongoing project che unisce i partecipanti in un’esperienza comunitaria “per connettersi con sé stessi e con gli altri”. Il progetto prevede un set di 30 carte, ciascuna delle quali invita a seguire istruzioni diverse, tra cui, ad esempio, “camminare al contrario con uno specchio” o “aprire e chiudere una porta”. Prevedibilmente l’“Abramovic Method”, che promette di stimolare “una più alta coscienza creativa”, ha attirato su Marina nuove critiche e perplessità, bollato dall’opinione pubblica come kitsch e definito “arte della celebrità nella sua forma più vuota”. A dar adito alle critiche la presenza, tra i seguaci, di celebrità pop tra cui Lady Gaga e Jay-Z. Al di là dello scetticismo, il lavoro di Marina Abramović da sempre divide la critica e continua, nel bene e nel male, a far discutere. Con i suoi gesti provocatori e le sue performance, Marina ha saputo fare di sé stessa un’icona della performance art e della sua storia un’opera d’arte totale. La prima retrospettiva UK, posticipata a causa della pandemia, si terrà alla Royal Academy nel 2023. 

  • from “Marina Abramović, Walk Through Walls: A Memoir”, 2016, Penguin
  • Marina Abramovic, Photography by Dusan Reljin, 2018