Mentre la cultura popolare ci inculca il mito di una natura selvaggia
vista come meta per fuggire da una quotidianità frustrante,
l'esperienza più comune ci tiene ancorati a un turismo di massa
oppure a fugaci evasioni verso quei luoghi che non sono altro
che quel che resta del paesaggio: vestigia di ciò che un tempo
era campagna e adesso è spazio dominato dall'industria, dallo
sviluppo urbano e dalle grandi aree commerciali. Conquistati
per necessità e trasformati dalla resilienza, questi luoghi perdono
la loro dimensione inospitale per convertirsi in opzioni plausibili
che consentono anche di godersi il tempo libero all'aria
aperta e lontano dal caos della città.
Queste scenografie dell'ozio
nella società postindustriale sono quelle che giustamente
interessano a Txema Salvans, che le interpreta enfatizzandone
la banalità surreale e aumentando il senso di divertente sorpresa
che producono in noi. Per questo si avvale di due artifici
retorici. Da un lato mantiene un punto di vista sufficientemente
lontano per mettere in primo piano la scena e il suo contesto
rispetto ai singoli personaggi e alle loro espressioni. Ma in
secondo luogo, e soprattutto, ricorre all'artificio dell'ellissi. La
maggior parte delle immagini è stata realizzata sulla spiaggia
o vicino al mare: il mare è quindi l'elemento che giustifica la
presenza dei bagnanti, dei pescatori o dei giochi sulla sabbia. E
tuttavia il mare è sempre invisibile perché Salvans si colloca tra
l'acqua e i personaggi, invertendo la direzione del suo sguardo.
Basato su fatti reali
Joan Fontcuberta legge il lavoro del fotografo spagnolo Txema Salvans, che enfatizza la banalità surreale dei "non luoghi" prodotti dalla società postindustriale, sottolineando il senso di divertente sorpresa che producono in noi.

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- Txema Salvans
- 12 febbraio 2013
- Barcellona

Pertanto, quello che la fotocamera ci mostra è uno sfondo degradato
al quale i personaggi vogliono girare le spalle. Girare le
spalle significa ignorarlo, significa anche fingere che non esista.
Il lavoro di Salvans parla quindi di questo auto-inganno collettivo
che porta a fantasticare con questi surrogati transitori di
paradiso. Dato che non sappiamo se vi sia un altro paradiso
possibile, ci accontentiamo di questi momenti di felicità e di riposo
in mezzo al cemento e alle fabbriche. Ma ci parla anche di
un paradosso che riguarda la politica della visione. Il paradosso
è che a noi, "spettatori-delle-fotografie", è vietato vedere quello
che gli "attori-nelle-fotografie" vogliono vedere e in cambio si
manifesta davanti ai nostri occhi ciò che essi non vogliono vedere.
È Salvans che gestisce le interazioni di questa dialettica e
nel farlo dimostra, come sosteneva Nietszche, che non esistono
fatti, ma solo interpretazioni. Joan Fontcuberta
Artista e docente di fotografia
Questo testo è stato pubblicato in origine sul catalogo della terza edizione del concorso a inviti per giovani artisti "GD4PhotoArt" sul tema "Fotografia, Industria e Territorio", promosso da G.D e dalla Fondazione Isabella Seràgnoli.
Txema Salvans (Barcellona, 1971): "Fare fotografie è anche un eccellente sistema per interagire con gli altri e per me, che sono socievole e ottimista, l'interazione con le persone è necessaria tanto quanto respirare; a condizione che sia positiva. Ed è proprio qui che si scorgono gli aspetti della vita che più mi interessano, quelli a cui facciamo ricorso esclusivamente nella ricerca di quel fragile fine che si chiama felicità: momenti di riposo fisici e mentali intesi come regni in cui si afferma la vita, lontani dagli sforzi e dai sacrifici richiesti dal lavoro da cui dipende il nostro sostentamento. Credo che il mio modo di vedere le cose sia passato dalla sorpresa, dall'ironia e dalla celebrazione all'accettazione appagata della manifestazione degli altri, sempre meno pronto a giudicare, sempre meno reciproco e sempre più maturo".