Fondato a Milano nel 1976 dai fratelli Alessandro e Adriana Guerriero, l’atelier di progettazione e design Studio Alchimia è stato il primo esempio di gruppo di progettisti produttori che ha lavorato confrontandosi, sperimentando svariati ambiti: dalla creazione di oggetti di design e progetti di architettura a performance, set teatrali e fashion design, dalla produzione di video e suoni sperimentali fino alla realizzazione di seminari e libri.
Studio Alchimia
Nelle parole del fondatore, Alchimia è “la ricerca di un principio unificante, il progetto di un universo che contiene tutte le cose, dal greco fondere, colare insieme” per creare “oggetti di funzione ed emozione”.
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- Irene Sofia Comi
- 12 luglio 2022
Inizialmente chiamato Studio Alchymia (un termine poi sostituito per ragioni di riconoscibilità), il collettivo d’avanguardia post-radicale è stato tra i più vivaci dell’epoca e si è specializzato in progettazione e produzione di oggetti e arredi firmati in piccola serie, così come nella produzione e diffusione di idee sperimentali attraverso mostre e allestimenti in Italia e all’estero.
Nell’accostare a un approccio pratico la teoria del design, Studio Alchimia ha sviluppato una ricerca ambientale e psicologica degli oggetti, definendo una nuova teoria del “design romantico” che ha preso il nome di New Modern. Tale attitudine traspare anche dal nome del progetto, riferito al processo alchemico della trasformazione del piombo in oro. Nelle parole del fondatore, Alchimia è “la ricerca di un principio unificante, il progetto di un universo che contiene tutte le cose, dal greco fondere, colare insieme” per creare “oggetti di funzione ed emozione”.
Il movimento è stato animato dai più significativi personaggi del periodo – tra gli altri Alessandro Mendini, Ettore Sottsass jr, Bruno e Giorgio Gregori, Michele De Lucchi, Andrea Branzi, Paola Navone, Daniela Puppa, Franco Raggi, Cinzia Ruggeri, Paolo Portoghesi, Riccardo Dalisi, Magazzini Criminali, Metamorphosi, UFO ed alcuni protagonisti della Transavanguardia – ma quelle che avvennero in Studio Alchimia non furono collaborazioni da intendersi come interventi esecutivi, quanto come apporti creativi e progettuali di collaboratori che operavano autonomamente in una stessa direzione.
L’uomo e la donna di oggi vivono in stato di turbolenza e di squilibrio, ma soprattutto la caratteristica della loro vita è quella del dettaglio: frammenti organizzativi, umani, industriali, politici, culturali... Quest’epoca di transizione li vede immersi nella paura indefinita dovuta alla scomparsa di molti valori considerati come certi. Occorre ritrovare se stessi, Alchimia lavora sui valori considerati negativi, della debolezza, del vuoto, dell’assenza e del profondo, oggi intesi come cose laterali rispetto a ciò che è esteriore, pieno e violento, come cose da rimuovere.
Alessandro Mendini
Sviluppatosi in seno alla crisi di valori dell’epoca postmoderna ed avendo ereditato l’atteggiamento di critica sociale introdotto dall’Architettura Radicale, seppur plasmato su un’atmosfera diversa da quella del Sessantotto, Studio Alchimia ha segnato l’evoluzione del design italiano grazie alla sua vocazione poetica, autoriflessiva ed eclettica, che aveva l’obiettivo di mettere in crisi l’ordine precostituito e il concetto di normalità, rintracciando al di fuori degli schemi la sua raison d’être. Il gruppo si opponeva infatti alla specializzazione in favore di un approccio interdisciplinare tale da favorire la commistione dei generi (pittura, scultura, architettura, teatro, arti applicate), degli stili e delle tecniche (dall’artigianato all’industria, fino all’informatica).
Lontano dalla linea imposta dall’establishment, l’atteggiamento anticonvenzionale di Alchimia era indirizzato all’elogio del banale e dell’imprevisto, dell’ornamento e della decorazione, di ciò che è ludico e curioso, con l’intenzione provocatoria di proporre un “design make-up”, un “oggetto cerimoniale e totemico”.
“Nell’era dei molteplici ‘post’ in cui siamo felicemente entrati (post-modernismo, post-avanguardia, post-industria) un ruolo di notevole importanza è da riconoscere agli oggetti di arredamento (mobili, lampadari, tappeti…) prodotti dallo Studio Alchimia, che si distingue per la formula di produzione di una collezione di nuovi arredi ogni anno, dando lunga vita all’impresa senza lasciare che si perda nella frammentarietà del singolo episodio”, commentava Renato Barilli, definendo lo Studio come una “progettazione di immagini per il XX secolo” (Domus, n. 607, giugno 1980).
Frutto di tale impostazione è la teoria del “design banale”, introdotta dallo Studio quale operazione di riciclaggio sistematico: “non occorre più inventare del nuovo, occorre piuttosto, con un’impresa alchemica, riscattare vecchie formule e stili e moduli già frequentati nel passato, caduti nella banalità ‘popolare’, muovendosi in senso contrario rispetto all’architettura che vuole imporre ovunque il concetto di nuovo come modulo unificante”, scrive Barilli in Arredo Alchemico (Domus, n. 607, giugno 1980); un atteggiamento al passo con il proprio tempo, nel quale l’avanzare della fotografia, della grafica pubblicitaria e della vetrinistica veniva interpretato dal gruppo come un’occasione per accogliere e integrare la cultura creativa e popolare del tempo.
Le realizzazioni di Studio Alchimia sono oggetti, architetture e dipinti assieme normali e anormali, “ognuno dei quali compie una qualche ‘funzione’ e raggruppa un numero indefinito di elementi che si decorano e si camuffano tra loro […] con la possibile aggregazione infinita delle allucinazioni, degli incanti e degli abissi presenti nella nostra mente” (Jasper Morrison e Francesca Picchi in Domus, n. 1050, ottobre 2020). Lo Studio teorizzava la crisi definitiva del progetto, che veniva sostituito dal linguaggio immaginifico del disegno (“Esistere senza progettare” è uno degli slogan del gruppo). L’importanza assegnata al disegno si è incentrata sul pensiero visivo, ispirato non solo dagli oggetti ma dalla vita quotidiana stessa, in un’interpretazione vivace e giocosa. Fu il fondatore Guerriero a mettere al centro tale pratica, invitando numerosi designer dell’epoca – tra gli altri Mendini, Sottsass, De Lucchi e Branzi – a disegnare qualcosa per lui e per il suo studio da poco nato.
“Per Alchimia non bisogna mai sapere se si sta facendo scultura, architettura, pittura, arte applicata, teatro o altro ancora. Il progetto agisce ambiguamente al di fuori del progetto stesso, in uno stato di spreco, di indifferenza disciplinare, dimensionale e concettuale: il progetto è solo ginnastica del disegno”, “per Alchimia il suo compito di gruppo che disegna è quello di consegnare agli altri una testimonianza del ‘pensiero sentimentale’. La motivazione del lavoro non sta nella sua efficienza pratica, la ‘bellezza’ dell’oggetto consiste nell’amore e nella magia con cui esso viene proposto, nell’anima che esso contiene”, si legge nel Manifesto di Alchimia del 1984 firmato da Mendini, “padre spirituale” del gruppo e alter ego di Guerriero, che si unì al gruppo a partire dal 1978.
Può esistere una teoria dell’‘autenticamente falso’. Si può ipotizzare una metodologia di progettazione banale, un design e una architettura neo-banale culturalmente nota a se stessa. Una possibile sconvolgente carta da giocare nel momento in cui tutti i metodi di progettazione ‘postmoderni’ segnano il passo.
Alessandro Mendini
Nella logica dell’autoproduzione, all’interno di Alchimia nascono oggetti dalle forme e dai titoli ironici, spesso accompagnati da testi filosofici, come il caminetto finto Fuoco di S. Antonio (1976) o il tavolo Ultima cena (1975-77) che piegato diventa trasportabile “per consentire un irruento vagare del divino nel mondo”, dichiarava Guerriero. “La loro componente di qualunquismo li fa confluire nel quotidiano, nel reale e nel bisogno di appiattimento, la loro componente di eccezione li toglie dalla consuetudine e li collega al bisogno dell’imprevisto” (Mendini, 1984). Attraverso queste progettazioni il gruppo affronta i concetti di mediocrità e amoralità stilistica come pensieri rivoluzionari, guardando al mondo piccolo borghese interpretandolo non soltanto come una classe ma come “condizione generata e generalizzabile”, sottolinea Tommaso Trini.
L’anno del debutto della prima collezione di elementi d’arredamento di Studio Alchimia fu il 1978, con la mostra intitolata “Bau.Haus uno”, seguita dall’omonima “Bau.Haus due” del 1980, un titolo – tributo in chiave parodica al Bauhaus che si distaccava dai principi razionali e funzionali del movimento e che voleva essere una dichiarazione fondativa del gruppo. Tra gli oggetti si ricordano il divano futurista dedicato a Kandinsky (Divano Kandissi) e la celebre poltrona barocca colorata a puntini dedicata a Proust, entrambi di Mendini; come racconta Barilli, la Poltrona Proust “rappresenta la negazione stessa del concetto di design, l’anti-design eccesso del kitsch materializzato di colpo in carne ed ossa” (Domus, n. 607, giugno 1980).
Un altro esempio emblematico è il Mobile Infinito (1981) che consiste in una serie di armadietti, comodini e cassetti con decorazioni magnetiche accostabili in una composizione infinita, realizzato con il tentativo di “ottenere un risultato non mediocre da un insieme di condizioni mediocri”, ricorda il suo creatore Mendini.
Le idee di modularità infinita esposte in tale occasione avrebbero trovato uno sviluppo parallelo in una ricerca condotta con Studio Alchimia e prodotta da MIM-Geres presentata nel settembre 1982 presso lo show room di MIM di Milano. L’esposizione avveniristica consisteva nella rappresentazione del problema dell’ufficio e della problematica del lavoro e dei suoi spazi attraverso il re-design di “Eulero” un sistema di arredi per ufficio altamente flessibile e di infinta componibilità, costituito cioè da abitacoli personalizzati, “dove all’anonimato dello spazio si sostituirà un ufficio psicotecnologico” (Domus, n. 642, settembre 1983).
Da un lato si realizzava un re-design su progetti famosi o di grandi autori del design e dell’arte, dall’altro si interveniva su oggetti di tutti i giorni, come accadde per le ideazioni presentate alla Biennale di Venezia nel 1980, dove Alchimia partecipò nella mostra Oggetto Banale, curata da Mendini. Qui vennero inseriti oggetti, case, particolari costruttivi, arredamenti e situazioni che rappresentano i luoghi reali dell’iconografia banale, offrendo la possibilità di leggerla in modo costruttivo invece che denigratorio. Arturo Quintavalle commentò così l’esposizione: “sbaglia la borghesia a non prendere in considerazione questa “vita banale” poiché la strada da battere nella ricerca è questa cultura d’arredo, la civiltà di riferimento – la koine, direbbe il grecista – della nostra civiltà degli oggetti” (Domus, n. 612, dicembre 1980).
Tra i settori in cui Alchimia investe c’è anche la moda, che vede in prima linea la rivista Domus che per la prima volta nel 1981 lancia il progetto “Domus Moda”, due numeri sperimentali supplementi dei n. 617 e n. 621, all’interno dei quali viene dato spazio a Studio Alchimia, ai designers di Memphis e a Elio Fiorucci (Domus, n. 1014, giugno 2017). Proprio il negozio di Fiorucci a Milano nel 1982 sarà protagonista dell’azione Arredo Vestitivo, una performance in vetrina dove Mendini espose i suoi “arredi vestitivi” o “vestiti arredativi”, con alcune modelle in vetrina che indossavano abiti di legno realizzati da Alchimia.
Tra il 1981 e il 1982 Studio Alchimia collabora con Domus insieme a Occhiomagico – studio fondato nel 1971 che si occupava di fotografia, andando alla ricerca di interazioni sperimentali tra il mondo della fotografia e altre arti – realizzando per la rivista ventiquattro copertine. Grazie a questa collaborazione, Domus guadagnerà la fama di rivista innovativa sia per contenuti che per iconografia. La collaborazione tra Alchimia e Occhiomagico fu tanto stringente che diventò impossibile definire una linea di confine tra le due realtà, in una contaminazione totale tra i linguaggi che guardava a esperienze simboliste, surrealiste, metafisiche e psichedeliche: in copertina non venivano mostrati i progetti e i prodotti ma gli autori, al pari di una rivista di moda o di musica (in alcune occasioni Alchimia ebbe a che fare anche con il mondo della musica, ad esempio con la collaborazione con i Matia Bazar, per i quali Cinzia Ruggeri realizzerà nel 1983 l’abito futurista in seta verde Homage to Lévi-Strauss, per la cover della canzone Aristocratica).
Il design non sai più bene cosa sia e parlare di progetto non ti riesce; il rock ti ha salvato la vita. Ti sembra allora che un mobile o un libro o una mostra di Studio Alchimia dovrebbe essere come andare a sentire Talking Heads o vedere Lampi sull’acqua, cioè che le sensazioni fossero molto forti, che progetti e disegni risuonassero a lungo nella testa al massimo volume e anche dopo un po’ non si sentisse bene quello che ti sta dicendo la ragazza che è con te e che vorresti portare a casa tua.
Stefano Casciani
Studio Alchimia ricevette il Compasso d’Oro nella categoria Design Studio nel 1981 per la ricerca nel design, lo stesso anno in cui, sulla scia di questa esperienza artistico-progettuale, nacque il gruppo Memphis, fondato da Ettore Sottsass, Barbara Radice e Michele De Lucchi. Staccandosi da Alchimia, il gruppo percorse una strada diversa: “Alchimia si è sempre espressa in maniera problematica, multidisciplinare, stando agganciata a situazioni di dubbio, di critica e di autocritica. Memphis ha imboccato la via dell’immagine forte, tranquilla, rassicurante, di establishment” (Mendini, Scritti, Skira, 2004).
Le attività di Alchimia proseguirono con numerosi altri progetti, tra i tanti la lampada Ollo (Guerriero, 1988), i Falsi mobili (1991) e i progetti della Torre Civica di Ghibellina (Mendini e Guerriero, 1987). Di lì a poco, viene fondato il Museo Alchimia in via Torino a Milano: in trent’anni ciò che all’inizio doveva rappresentare la desacralizzazione dell’oggetto moderno – e dell’idea di progetto ad esso collegato – finisce per consacrarsi definitivamente. Come racconta Guerriero “il Museo nasce agli inizi degli anni Novanta, ed è il primo segno della nostra autodistruzione, cioè del fatto che abbiamo cominciato a considerare noi stessi come una cosa del passato e quindi come una cosa che stava avendo le sue conclusioni”.
Studio Alchimia terminò le sue attività nel 1992 per decisione del suo fondatore Guerriero, che concluse l’esperienza con una performance da lui attivata in uno scantinato di via De Amicis a Milano.
Questo gruppo eclettico, caratterizzato da uno spirito di confusione capace di creare nuovi paradigmi e di anticipare lo sconfinamento contemporaneo tra le diverse discipline, rivive oggi in mostre e nelle opere dell’epoca, spesso riadattate in produzioni contemporanee. In Nuove intenzioni del Design (1982), Stefano Casciani definisce il gruppo come “un nowhere land o Utopia che non è facile spiegare perché non si spiega questo modo di sentire e rispondere subito in questa conversazione continuamente interrotta”.
Immagine in apertura: Foto di gruppo Alchimia, 1986. Dal basso in alto: Bruno Gregori, Pier Carlo Bontempi, Carla Ceccariglia, Alessandro Guerriero, Adriana Guerriero, Arturo Reboldi, Giorgio Gregori, Alessandro Mendini. Foto Alfa Castaldi