In occasione del Domusforum 2021, ci siamo posti sette domande per esplorare i futuri possibili. A due anni dalla pandemia che ha stravolto i nostri assetti sociali, è urgente riflettere sulle dinamiche associative del domani partendo da una fondamentale: la scuola.
Attraverso l'archivio di Domus esploriamo come le visioni di ieri su nuovi modelli didattici che guardano all’inclusività e all’integrazione della vita scolastica con il tessuto urbano, possano fornire spunti e risposte per il domani.
Ne scriveva già nel 1960 il direttore Gio Ponti, in un reportage dalla XXII Triennale di Milano, pubblicato sul numero 372 della rivista. “È stato affrontato in Italia il problema dell’istituire un tipo di scuole ‘standard’? No”. Ponti pone la sua domanda in riferimento alle scuole prefabbricate presentate dall’Inghilterra alla Triennale, di cui sono “il vero gioiello”.
È la facile riproduzione seriale a basso costo di questi edifici – “elementi prefabbricati riproducibili, concepiti per un programma di riproduzioni e di distribuzione […] sul territorio nazionale” – ciò che più entusiasma Ponti. Calato nel contesto italiano, poteva rappresentare una importante opportunità per operare un’unificazione culturale in un paese ancora polarizzato sul piano linguistico e dell’alfabetizzazione. L’edilizia scolastica avrebbe così assunto sul territorio il ruolo che negli stessi anni avevano in TV il Maestro Manzi e la sua lavagna.
L’Italia era sulla soglia del boom economico, e la ricostruzione stava rivoluzionando il modo di concepire l’edilizia civile e industriale. Le scuole invece rappresentavano un inadeguato lascito del passato, sia dal punto di vista didattico, sia architettonico. E continueranno a farlo: basti pensare alla sensazione di austera e polverosa obsolescenza comunicata dalle fredde aule in cui insegna il supplente Alain Delon ne La Prima Notte di Quiete di Valerio Zurlini, che esce un decennio dopo l’articolo di Ponti, nel 1972.
Proprio in quell’anno Domus racconta un altro rilevante progetto, questa volta per una scuola a Milano, a firma degli architetti Arie Rigler, Mordechai Reibman e Donato D'Urbino.
Come si legge sulle pagine di Domus 513, il progetto – realizzato in occasione di un concorso indetto dalla provincia di Milano – avanza la visione di una “scuola pubblica e non di Stato” in cui, attraverso l’edilizia, l'impostazione degli ambienti e la collocazione entro il tessuto urbano, non si tenda più a riprodurre “una società disuguale, compartimentata”.
L’edificio conta due piani e si sviluppa in lunghezza. Volumi diversi si incastrano armoniosamente suddividendosi tra uno “spazio primario, rettangolare, ad uso associativo per i lavori di gruppo”, e uno “spazio secondario”, circolare, con l’attenzione rivolta al centro.
Questi ambienti secondari e circolari presentano strutture a “gradinate” per accogliere gli studenti e sono pensanti – con grande lungimiranza – per essere facilmente separati o integrati con il restante spazio didattico attraverso “pareti bassi” e “trasparenti”.
“Al centro delle gradinate vengono trasmesse le informazioni, nei modi tradizionali o attraverso apparecchi audiovisivi di cui è attrezzato il 'piano servizio' superiore. Tutt'intorno alle gradinate, spazi per biblioteca, attività collettive, apparecchi audiovisivi ad uso individuale, gioco, ecc.", si legge nell’articolo.
L’affascinante visione della didattica di taglio anglosassone e nordeuropeo, in cui sono gli input multimediali e il laboratorio collettivo a dominare, ne era altresì l’ostacolo maggiore in un paese in cui il sistema educativo si fonda ancora profondamente sulla riforma Gentile varata nel 1923.
Un problema che, invece, sembrava già superato in altre parti del mondo, come la Svezia. Lo sottolinea, già a partire dal 1964, il reportage di Domus 421 su una Konsfackskolan – Scuola per le arti, l'artigianato e il design – di Stoccolma.
In questa idea di scuola, dunque, non è più lo Stato a fornire l’istruzione in maniera univoca e a “compartimenti stagni” dall’alto, bensì è la scuola – da intendersi come insieme dei suoi alunni, personale e conoscenze attive – a offrire un servizio alla comunità, dialogando e arricchendosi a vicenda con essa. Così diviene a tutti gli effetti “pubblica”.
Ne è segno la scelta di sostituire i muri di cinta con ampie vetrate, che riflettono l’ariosità degli ambienti interni. Analogamente, la strada che collega i tre ambienti della scuola, ingresso, corpo centrale e l’area destinata all’attività fisica, diventa l’asse portante. Ma non solo: fa da innesto dell’edificio nella vita del quartiere, “per formare con esso un tutto organico”.
A oltre cinquant’anni di distanza da questi articoli e, soprattutto, alla luce degli sviluppi della società tardo-capitalista, l’entusiasmo per la serialità delle scuole prefabbricate inglesi merita, dopotutto, di essere ridimensionato in quanto evoca un’idea fortemente corporativa, brandizzata e poco empatica dell’istruzione.
Può bastare un edificio a ovviare ai problemi dell’analfabetismo o serve, come suggerito da Ponti, ottenere un più ampio e strutturale supporto allo sviluppo della didattica da parte dello Stato? Non entra forse ciò in collisione con la visione di una scuola “pubblica e non di Stato” teorizzata da Rigler, Reibman e D’Urbino? E ancora, può la sola scuola evitare di riprodurre le disuguaglianze interne alla società senza un precedente intervento dello Stato sulla società stessa?
Domande tuttora aperte che suggeriscono come l’architettura e il design di ieri possano offrire spunti di riflessione ancora attuali per la società del futuro.
Immagine di apertura: Un alunno si affaccia da una finestra dell'innovativa Konsfackskolan di Stoccolma, Domus 421, 1964. Foto: Archivio Domus