JUST WHAT IS IT THAT MAKES TODAY’S HOME SO DIFFERENT, SO APPEALING? collage, mixed media January 2008 © Francesco Vezzoli
Gio Ponti e gli artisti
Nell’universo creativo di Gio Ponti le arti si specchiano, convergono, si cercano in un inseguimento continuo, partecipano allo spazio architettonico: non possono mancare nella casa moderna, è una questione di educazione al gusto e all’estetica.
Pubblicato in origine su Speciale Domus Gio Ponti / anno 2008
Gli artisti sono amici, compagni di strada, seguono l’architetto in avventure extra-pittoriche, uscendo dal silenzio degli atelier e confrontandosi con gli spazi del nuovo. Ponti svolge un ruolo attivo di abile e indiscusso “talent scout” in grado di rivelare i talenti predestinati, impiegandoli nell’architettura o nelle arti decorative, quale regista di situazioni, artista tra gli artisti. Emblematico è il caso di Fausto Melotti, ‘scoperto’ ancora ventenne come abile ceramista durante la direzione della Richard Ginori e poi incoraggiato nella sua straordinaria avventura creativa per tutta la vita. Ponti vorrà quelle magiche, liquide ceramiche in importanti realizzazioni (Terminal dell’Alitalia a New York, Villa Planchart a Caracas e Villa Nemazee a Teheran). La disponibilità extra-pittorica dell’artista impegnato a trasferire idee in opere che non contemplino il classico formato da cavalletto ma trovino una nuova e necessaria espressione nella “produzione d’arte”, tramite la collaborazione con specializzate maestranze artigiane e industriali uniche in Italia, è il presupposto dell’approccio pontiano all’arte figurativa, uno dei principi ‘moderni’ di rinnovamento delle arti, su cui l’architetto fonda la sua Domus, nata nel 1928. I termini della pontiana “azione per l’arte” sono la giovanile direzione della Richard Ginori, le Biennali di Monza e le successive Triennali; le infinite pagine di Domus dedicate alle ricerche plastiche e pittoriche; le vere e proprie opere d’architettura, quando la committenza lo permetta. Tra gli artisti coinvolti, Mario Sironi, a cui Ponti affida la direzione della sezione di “pittura murale e scultura decorativa” alla V Triennale (1933); frequenti sono poi i rapporti con i protagonisti del Novecento come Carrà, Tosi, Andreotti, Martini, Romanelli. Tra i ponteggi della Triennale si sviluppa l’amicizia con Severini, la predilezione per Funi, la sensibilità per de Chirico, chiamato poi, a partire dal 1941, a collaborare alla rivista Stile; intanto si chiarisce nel pensiero di Ponti una delle principali funzioni dell’arte ‘pubblica’, scalzare gli artisti da un asfittico sistema dell’arte, costituito da un collezionismo poco sviluppato, dalle solite gallerie d’arte e dal rigido e tumultuoso sistema delle esposizioni. Con Massimo Campigli, altro caposaldo della vita artistica pontiana, l’architetto dialogherà a lungo rafforzando, quasi per coincidenza sensibile, lo stile delle “donne-vaso” e delle figure triangolari: il pittore è amato per la sua “astrazione figurata”, il raffinato arcaismo, la sua semplicità e grandezza, l’affastellamento delle figure umane entro cornici e finestre. La vasta e famosa decorazione dell’atrio del Liviano dell’Università di Padova (1939) è anche la concretizzazione del sogno di un’architettura come colore.
L’azione di Ponti in favore di una ceramica d’autore e il suo impiego nell’architettura, lo rende fautore della rinascita dell’arte contemporanea italiana nel secondo dopoguerra: apprezza e valorizza precocemente l’opera di un maestro come Lucio Fontana in rapporto alle ceramiche di Picasso, rivaluta la Scuola d’Albisola (il giovanissimo Salvatore Fancello, Agenore Fabbri, Aligi Sassu), Melandri e la scuola di Faenza, scopre Leoncillo. La fede di Ponti in Fontana costituirà un caso specifico, analogo a quello di Campigli e Melotti: lo accompagnerà per tutta la vita, culminando nella frequente pubblicazione su Domus delle ‘novità’ straordinarie del maestro, nelle copertine a lui dedicate negli anni dello Spazialismo e oltre, in felici collaborazioni (come nell’atrio di via Donizetti 24 a Milano). Un capitolo fondamentale del rapporto con gli artisti è poi l’arredo navale, una sorta di museo viaggiante che rappresenta la creatività italiana nel mondo; negli arredamenti pontiani delle prime classi del “Conte Grande” e dell’“Andrea Doria” (1950-52), con Nino Zoncada, o in quelli prestigiosi del “Conte Biancamano” (1950), protagoniste erano ceramiche d’autore (Melotti, Fontana, Melandri, Leoncillo, Fiume), l’alto-artigianato (gli smalti di De Poli, le pitture su vetro di Altara, le ceramiche di Gambone e Rui), accanto a maestri come Sironi e Campigli, già autori affermati, con grandi formati o arazzi, affiancati a interventi pittorici di Ponti. Tali episodi sono espressione di una ‘integrazione’ in vista di un’apertura internazionale degli orizzonti dell’arte italiana; un fenomeno che assume, tra astrattismo e informale, una vasta proporzione, ma che presto è minato dalla nascita della figura del designer, dall’avvento delle estetiche new- dada e dall’elaborazione, in arte, del concetto di ‘ambiente’: il principio di ‘espressione’ pontiano tenta un dialogo con gli atteggiamenti di azzeramento ed estrema riduzione concettuale dell’opera moltiplicata e dell’arte ambientale, ad esempio nell’attività promossa negli anni Sessanta nel negozio Ideal Standard a Milano (dove espongono i propri lavori, tra gli altri, la Vigo, Pistoletto, Sottsass nella serie di mostre intitolata “Espressioni”). Tuttavia si avvia ormai l’estetica del vuoto e di un razionalismo più schietto a cui Ponti, del resto, non si sottrae, affermando il principio dell’architettura come opera d’arte ‘totale’ e d’invenzione, in grado di riassumere le funzioni espressive prima ‘delegate’ alla genialità di molti autori. Il rapporto con artisti da sempre privilegiati come de Chirico, Campigli, Fontana, Melotti si tramuta in una fedele amicizia, per tutta la vita, in nome di una missione più ‘alta’ dell’architettura quale opera d’arte.
A cura di:
Paolo Campiglio
Paolo Campiglio è ricercatore di Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Pavia. Particolarmente interessato ai rapporti trasversali tra le arti, è autore di diversi saggi, tra cui Ponti
artista verso gli artisti, in Gio Ponti e l’architettura sacra, Silvana Editoriale 2005.
Francesco Vezzoli
Il 18 aprile 2002, verso le 5 del pomeriggio, un piccolo velivolo Rockwell Commander, proveniente da Locarno e pilotato dal sessantasettenne svizzero Luigi Fasulo, sorvolò Milano e andò a schiantarsi contro uno degli ultimi piani del grattacielo Pirelli, icona urbana e unico grattacielo di Milano progettato da Gio Ponti, nel 1956. L’aereo centrò le vetrate delle finestre, uccidendo tre persone, compreso il pilota. Per un momento, l’Italia assistette al suo micro 11 settembre. Una volta esclusa l’ipotesi di un attentato terroristico o quella di un attacco militare da parte della neutrale e pacifica Svizzera, la gente iniziò a chiedersi cosa fosse accaduto. È difficile non notare il grattacielo Pirelli nello skyline di Milano, così come è facile evitarlo se non c’è nebbia, e quel pomeriggio
di nebbia non ce n’era traccia. Si scoprì che il Mohammed Atta svizzero era un pensionato presumibilmente depresso che aveva scelto di porre fine alla sua vita in quel modo spettacolare e patetico, trascinando nella sua follia altre due persone innocenti.
Probabilmente, nessuna delle vittime del disastro sapeva che l’edificio era una pietra miliare dell’architettura italiana, oltre che l’opera audace
di uno degli architetti più insigni del dopoguerra.
Se le conseguenze non fossero state così tragiche, il cast dei protagonisti avrebbe potuto far pensare che l’incidente fosse stato orchestrato da Francesco Vezzoli come una performance o come un intervento artistico di qualche genere. L’attrazione morbosa di Vezzoli per i personaggi di secondo piano e per le celebrità in declino tornate in auge in settori differenti, dal cinema alla moda o all’architettura, poteva benissimo giustificare un progetto come quello di un piccolo aereo che si schianta sul monumento autocelebrativo di Gio Ponti.
Con le prospettive scelte in modo tanto minuzioso, le inquadrature da panorama e i raddoppiamenti nel dittico non riproduce l’architettura ma la interiorizza nell’immagine. Come un geologo, Walter Niedermayr si interessa della costruzione tettonica dell’oggetto, portando minuziosamente alla luce le sue stratificazioni e le sue strutture.
In questo processo trasforma la staticità e la fissità delle costruzioni in qualcosa che appare irreale e astratto, una febbre effimera pervasa dalla leggerezza e dalla luce.
Con la torre del Pirellone in via Fabio Filzi 22, a Milano, l’artista è tornato a occuparsi di un edificio carico di storia. Dopo quattro anni di lavori, questo primo grattacielo d’Italia, trentadue piani per un’altezza di centoventisette metri, fu inaugurato nell’aprile 1960 come sede centrale degli uffici della ditta Pirelli. Da allora l’edificio creato dal collettivo di architetti Gio Ponti, Pier Luigi Nervi, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli, Giuseppe Valtolina ed Egidio Dell’Orto è considerato un’icona del razionalismo italiano. Nella sua maniera discreta ma pertinente, Walter Niedermayr riesce a fissare questo edificio come tale, anche conciliando due prospettive opposte: la fuga orizzontale dell’imponente piazza Duca D’Aosta e la verticale in filigrana della facciata del ‘Pirellone’. Le visuali sono scelte strategicamente per mostrare l’anima di questo luogo: Bildraum 34/2007, per esempio, evidenzia la pelle vitrea della torre nella controluce del riflesso del sole. Sebbene proprio questa immagine mostri meno di tutte l’architettura, è proprio quella che ne svela in modo più pregnante l’intenzione: la tensione verso mete più alte.
Nel 2002, Francesco Vezzoli non pensava in maniera così eroica; in effetti la sua fantasia perversa, più che tramutare i suoi modelli in eroi era concentrata nel trasformarli in centrini ricamati per arredare il salotto buono di qualche vecchia zia con gusti precocemente modernisti. Alcuni considerano Gio Ponti un semidio che avrebbe ben potuto materializzarsi in cima al grattacielo Pirelli, come un miracolo o come un’apparizione; Francesco Vezzoli lo vede più come il santo di un dio minore, perfettamente collocato sopra un armadio finto barocco, sotto un vaso di fiori finti. Nel caso di Vezzoli, è difficile dire se egli sia un iconofobico oppure un iconoclasta, ma la sua lettura di Gio Ponti come designer della cultura gay per gli arredatori d’interni dell’alta borghesia, specie negli Stati Uniti, è piuttosto interessante. A Manhattan, qualsiasi antiquario che tratti mobili di modernariato possiede un pezzo “Gio Ponti”. Ponti è l’ancora di salvezza di qualunque oggetto o mobile anonimo che abbia una linea particolarmente bella ma il cui designer sia ancora da scoprire. “Crediamo sia un Gio Ponti”,
è la risposta consueta di fronte all’espressione perplessa di un cliente che sta guardando il prezzo a 5 cifre riportato sul cartellino appeso ad un comodino largo 30 centimetri. Secondo Vezzoli, Gio Ponti creò il proprio stile internazionale anticipando un gusto non ancora ghettizzato, come lo è oggi, dalla cultura gay. L’architetto italiano, fondatore di questa rivista, sarebbe rimasto inorridito nell’incontrare gente come Schwarzenegger o come Robert Mapplethorpe e conoscere i loro amici e i loro partner lo avrebbe addirittura terrorizzato. La sua idea di spazio non avrebbe sopportato la brutalità sessuale del sottobosco di fine anni Settanta o dei primi anni Ottanta. Il suo tocco lieve, magicamente espresso nella sedia “superleggera”, si sarebbe sgretolato sotto i corpi dei modelli di Mapplethorpe, e tuttavia il contrasto immaginato da Vezzoli è affascinante e stimolante perché pone degli interrogativi davvero inquietanti per coloro che considerano Ponti il simbolo del machismo blandamente civettuolo di quel Rinascimento innovativo ed economico italiano degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta. La domanda che Vezzoli si pone, fondamentalmente, è questa: “Ponti era un omosessuale non dichiarato?”.
Nel caso di una risposta affermativa, mi domando se l’armadio in cui si era nascosto portasse la sua firma originale.
Francesco Bonami
Curatore d’arte contemporanea, scrittore e critico, vive dal 1986 negli Stati Uniti, dove è curatore al Museo di arte contemporanea di Chicago. È stato direttore della Biennale di Venezia per la 50ma edizione del 2003.
Chi è Francesco Vezzoli
Nato nel 1971 a Brescia, Vezzoli ha sviluppato un personale linguaggio artistico che compone in ogni sua opera un complesso intreccio di riferimenti al mondo dello spettacolo, della fotografia e della video-arte. La sua ricerca si è appropriata, di volta in volta, dei linguaggi dell’iconografia artistica, del cinema, della letteratura, della politica
e del potere mediatico. I suoi lavori sono stati presentati alla Whitney Biennial, alla 49a, 51a e alla 52a Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, al Guggenheim Museum di New York, alla Tate Modern di Londra, alla Fondazione Prada di Milano e al Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea, Torino.