Quasi costretto tra una nota citazione di Karl Marx (su conoscenza e cambiamento) in apertura e una di Luigi Pintor (sull’incombere del futuro) in chiusura, il breve saggio introduttivo di Aldo Aymonino contiene un’ipotesi molto forte. L’ipotesi che l’architettura a zero cubatura possa contribuire a restituire figuratività alla società surmoderna. Un po’ come in passato è stato riconosciuto abbia fatto la landart per la società ad essa contemporanea. Questa ipotesi ne contiene implicitamente alcune altre, la più importante delle quali lega strettamente l’architettura a zero cubatura allo spazio pubblico. L’accostamento è già nel titolo. Sui due termini è dunque opportuno soffermarsi.
Con la locuzione architettura a zero cubatura (azc nell’acronimo), Aymonino intende riferirsi ad un’architettura fatta di leggerezze, di mancanza di peso e di massa, che riesce a superare i limiti dell’edificio, andando oltre i confini della costruzione, intessendo legami con nuove tecnologie e materiali. Nonostante il suo porsi volutamente a lato della tradizione forte e concentrata del XX secolo, l’azc ha molte radici nel passato, alcune delle quali raccolte, in prefazione, da Denise Scott Brown riferendosi alla Las Vegas degli anni Sessanta, quella in cui le insegne “sottili e possenti” valgono più degli edifici: una città fatta di segni e figure prima che di costruzioni. L’azc intercetta largamente l’attuale attenzione alla dissoluzione dell’oggetto nell’ambiente, alla liquidità degli spazi, alla fusione e alla dispersione, alla cancellazione. Da questo punto di vista, ridefinire un atteggiamento critico, riconoscerlo, nominarlo è perspicace e stimolante.
Più acquisite sembrano invece le posizioni che riguardano lo spazio pubblico contemporaneo, oggi decisamente lontano dalle forme nelle quali era riconosciuto, ipotizzato e progettato durante la lunga tradizione della città moderna, con tutto ciò che l’ha accompagnata nei tanti manuali di disegno urbano. Entro quella tradizione lo spazio pubblico era ben definito, disegnato e stabile. Collocato saldamente al centro della città. Oggi esso appare labile, mobile, sfrangiato. Strettamente connesso alle infrastrutture che hanno occupato, nell’immaginario disciplinare, quasi per intero la scena. Una condizione sfumata, che sfugge a definizioni univoche. Come ci hanno mostrato tempo fa gli studi di cultural geography (ad esempio quello di Maarten Hajer e Arnold Reijndorp, In Search of New Public Domain, edito da NAi nel 2001). Lo spazio pubblico contemporaneo riaffiora quando e dove non ce l’aspettiamo, seguendo le vicende del formarsi del pubblico (nell’accezione deweyana) o, più semplicemente, del modificarsi delle nostre consuetudini a stare assieme da qualche parte. Insomma, qualcosa che appare difficile definire per decreto o per progetto, nella sua irrinunciabile densità sociale. Che rimane anche, fondamentalmente, opacità. Il problema è dunque ricatturarlo in qualche modo e ridefinirne le condizioni di possibilità entro una città che cambia velocemente.
A questo problema, non semplice, risponde nell’ipotesi di Aymonino e Mosco l’azc. Per sostenere questa posizione, il libro propone un repertorio di 100 progetti che nel loro insieme disegnano una diversa attitudine professionale, attenta alle possibilità delle tecnologiche, come alle nuove retoriche sulla città contemporanea. Quasi un atteggiamento comune, attraversato da indifferenza ad approcci disciplinari, da un’attenzione precisa all’intorno, da una cura a definire usi potenziali e non univoci dello spazio, e infine dalla capacità di restituire una qualità minuta, diffusa ai luoghi. I curatori giudicano questi progetti antiteorici e nel contempo propositivi di una nuova teoria empirica, un nuovo modo di confrontarsi con il contemporaneo nelle forme dell’urbano, del territorio, del paesaggio. Le sezioni nelle quali sono ordinati sono intitolate a Superfici, Verticale, Recinti, Design, Ripari, Ambiente, Earthworks, Figure, Tecniche, Eventi. Ogni sezione è chiusa da un saggio che riprende a suo modo e riarticola le ipotesi in premessa. In questi scritti (di Enrico Morteo, Wes Jones, Alberto Ferlenga, Ilhyun Kim, Kengo Kuma, Juan Purcell F., Bernardo Secchi, Pippo Ciorra, Arie Graafland, James Wines) si dipana una rete più fitta di rimandi e argomentazioni che permette di sostenere quell’ipotesi tanto ambiziosa denunciata in apertura e comprendere come l’azc ridefinisca un’idea di benessere del nostro stare (collettivamente) nello spazio. Reincarnando in questo modo la tensione dell’architettura a fornire un imprescindibile servizio sociale.
Cristina Bianchetti. Docente di Urbanistica al Politecnico di Torino