Domus: Il brief chiedeva un edificio che fosse completamente riciclabile, con il 50% di spazi aperti, che usasse il verde come elemento di progetto. Come si sono tradotte queste prescrizioni nel padiglione degli Stati Uniti?
James Biber: L’aspetto della riciclabilità è stato interpretato dal punto di vista del “riutilizzabile”: l’acciaio della struttura in sé è riciclabile, ma occorre energia per farlo. Per cui il concept importante è quello del riuso: la copertura in vetro digitale verrà rivenduta dall’impresa che l’ha realizzata per essere utilizzata in un altro edificio. Lo stesso vale per gli ascensori e per il legno della passerella. Stiamo cercando un luogo che possa ospitare la fattoria verticale, e forse l’abbiamo trovato qui a Milano.
L’aspetto del verde si risolve nella fattoria verticale lunga quasi 100 metri e alta 10: per noi rappresenta un elemento di controllo climatico, perché protegge gli spazi interni dall’irraggiamento, è un dispositivo per l’illuminazione, con la luce che penetra all’interno riflettendo il disegno delle piante, ed è coltivabile, perché in fondo si trattava di progettare per il cibo. Poi ci sono le piante acquatiche e la vegetazione che cresce all’interno del padiglione. Al contrario di molti altri padiglioni non abbiamo adottato il tetto verde, ma abbiamo scelto per la copertura il vetro “digitale”, che diventa blu scuro o trasparente a comando: non è solo un sistema di ombreggiamento ma i 300 pannelli che lo compongono possono essere regolati individualmente, come fossero i pixel, giganti, di uno schermo.
In questo modo abbiamo creato un edificio che non vuole essere un museo e nemmeno Disneyland, ma qualcosa di intermedio: un edificio civile, di intrattenimento, didattico e un pezzo di architettura iconica. La fattoria verticale e la copertura digitale creano un’architettura espositiva.
Il padiglione vuole essere anche una sorta di “scaffale” di idee, sviluppate in maniera quasi spontanea, in cui proponiamo una serie di soluzioni, tecnologiche e non.
Domus: In che modo l’aspetto di temporaneità ha influenzato l’architettura?
James Biber: Mi ha spezzato il cuore. Credo sia un ossimoro avere un’esposizione sulla sostenibilità che dura solo sei mesi: è una contraddizione. Vorremmo che quest’edificio fosse permanente. Per questo lo abbiamo pensato come uno spazio che può adattarsi a diversi scopi, che può ospitare contenuti differenti. Allo stesso tempo non è davvero un edificio, è uno spazio aperto coperto a cui il pubblico accede dalla passerella in legno.
Domus: In che senso possiamo dire che questo padiglione rappresenti l’architettura americana contemporanea?
James Biber: Non volevamo rappresentare l’architettura contemporanea degli Stati Uniti, ma gli Stati Uniti contemporanei, o meglio, le aspirazioni di questo paese oggi. Dal punto di vista formale abbiamo preso spunto dall’architettura rurale americana: strutture oneste, semplici, usate spesso per ospitare eventi comunitari. Da qui l’idea di edificio come contenitore di eventi pubblici. Anche tutti i dispositivi analogici sono un omaggio all’America: gli ascensori per esempio, usati per la prima volta a New York nel 1857, sono chiaramente visibili nel loro movimento. Il padiglione americano vuole essere un edificio semplice, a differenza di molti altri padiglioni concepiti come sculture, raccontando quell’America che non è ne New York né Los Angeles, ma quella dei vastissimi territori che stanno nel mezzo, dove vivono comunità di persone intelligenti e produttive, il cui operato è fondamentale per il Paese. Un altro elemento molto americano è il concetto della strada, rappresentata dalla passerella di legno che invita a entrare, un passaggio tra le cose. Gli americani socializzano nelle strade, non nelle piazze e tantomeno nei parchi: a differenza di quasi tutte le città italiane, lo spazio pubblico per eccellenza per noi è la strada.
Per questo mi piace così tanto il masterplan di Expo con il suo carattere estremamente urbano: l’ho sovrapposto a quello di Manhattan e combaciano perfettamente, con il Decumano su Fifth Avenue e il Cardo…beh ciascuno è libero di scegliere il proprio Cardo.
Domus: In che modo il padiglione americano affronta la questione della relazione tra architettura e tecnologia digitale?
James Biber: C’è un dialogo tra architettura e tecnologia, sia digitale che analogica, come mezzo per parlare del ruolo fondamentale della scienza in tutti gli aspetti della vita contemporanea. Oggi c’è una relazione fortissima tra America e scienza: senza scienza, senza tecnologia non potremmo sfamare il mondo e al momento il governo americano sta investendo moltissimo.
Non vorrei invece sottolineare l’integrazione tra architettura e tecnologia come peculiarità del padiglione: oggi qualsiasi edificio, qualsiasi opera d’architettura deve necessariamente contenere una forte componente tecnologica, mi sembra anzi che la vera novità sia renderla invisibile, rendendola un elemento che non celebri se stesso ma che sia al servizio dell’edificio. Mi sembra più interessante la relazione tra società e tecnologia, in questo caso tra società e biologia, che si sviluppa nella fattoria verticale.
Domus: Quale potrebbe essere il futuro destino della struttura? Sono già state formulate delle ipotesi in questo senso?
James Biber: Appena sarà completato mi dedicherò a pensare a come non farlo spostare, ma è una decisione che spetta al BIE (Bureau International des Expositions), che ha stabilito che tutti gli edifici, salvo poche eccezioni, dovranno essere rimossi dopo sei mesi.
Domus: Come si è svolto il processo di selezione? Avete vinto un concorso?
James Biber: Nel settembre 2013 abbiamo vinto un concorso a cui si partecipava in team (architetti, imprese, intellettuali, finanziatori, …) con una proposta completa di padiglione, dall’architettura, al recupero delle risorse, all’allestimento.
Domus: Il progetto finale è stato rivisto da un partner locale per adattarsi alla normativa vigente in Italia?
James Biber: Abbiamo lavorato con Genius Loci Architettura – scelti dopo aver consultato diversi studi di architettura italiani – che hanno curato anche i rapporti con gli ingegneri strutturali, meccanici e impiantistici e con l’impresa costruttrice (Nussli Italia). Si è sviluppata una collaborazione molto stretta per cui siamo diventati un unico team: qualcuno del mio studio si è spostato a Milano, qualcuno di loro è venuto negli Stati Uniti