È la primavera del 1991 e una donna dalla folta capigliatura leonina scivola lungo lo stretto corridoio di un treno lanciato ad alta velocità lungo i 9.000 km che compongono la tratta Transiberiana. La donna bussa alle porte degli scompartimenti del treno in cerca dell’uomo che sta (in)seguendo Fino alla fine del mondo. Il road movie di Wim Wenders è un viaggio filmico senza precedenti lungo i bordi più sottili di un universo in disgregazione e l’occhio della macchina da presa si alterna con quello dell’apparecchiatura che usa il protagonista per raccogliere le immagini da regalare alla madre non vedente. Il teatro mobile dei personaggi, come un baraccone medievale di saltimbanchi, si muove fragorosamente da un capo all’altro della Terra restituendo allo spettatore un arcipelago di possibili letture, visuali e simboliche.
I territori attraversati dai protagonisti restano impressi sulla retina dell’occhio che guarda sia come precisi resoconti documentaristici, sia come alterate visioni fantascientifiche sia come ambigue e lisergiche sequenze di ricordi altrui. Dall’immagine di una Parigi notturna – simile alla Los Angeles di Blade Runner – impreziosita grazie alla presenza fittizia della Tour sans fins di Jean Nouvel, a una Venezia il cui affascinante tempo storico s’infrange contro la zona di Marghera in cui una coppia di futuristiche vetture della polizia riporta lo spettatore all’anno di svolgimento del racconto: il 1999.
Il futuro immaginato sulle forme del passato è il dispositivo che permette allo spettatore l’avvicinamento progressivo e sentimentale – si tratta pur sempre di una storia d’amore – a un mondo altrimenti ostico, difficile da praticare: l’altro da sé è il vero protagonista di questo film il cui tempo narrativo si dipana lungo tutto l’asse terrestre e il cui luogo di svolgimento sono spesso i territori del limite. Lo stesso tipo d’intensa percezione e di straniamento – gli argomenti trattati sembrano proprio ricalcare quelli del film – conquistano lo spettatore di fronte ai lavori presentati da Walter Guadagnini e Franziska Nori dentro e fuori le sale della Strozzina di Firenze.
Una mostra tanto più preziosa quanto più si pensi alla delicatezza del tema come sottolineano entrambi i curatori nel riuscitissimo catalogo – coniuga un conciso e serio apparato teorico/critico a un’ottima descrizione del lavoro artistico – spiegando che il vincolo maggiore per la progettazione di questa mostra riguarda la vulnerabilità e la contraddittorietà dell’oggetto preso in esame che comprende, come spiega bene il titolo, l’instabile decifrazione del concetto di territorio e, per conseguenza, di limite.
Il termine territorio, come viene spiegato nella presentazione alla mostra, “non indica solo una nozione geografica o un’area spaziale ma fa riferimento anche a un concetto di appartenenza che si estende a una dimensione personale, psicologica e mentale, e, in un contesto ancora più ampio, sociale, culturale e identitario. Le opere degli artisti in mostra forniscono differenti attitudini, modi di vivere e pensare il rapporto instabile tra identità, territorio e confine in un’era di grandi aspettative (e illusioni) su una borderless society, una società senza confini, un territorio globale condiviso”.
La mostra mette in luce una serie di paradossi con cui quotidianamente ci confrontiamo e che riguardano alcuni concetti-chiave strettamente connessi alla definizione di geografie complesse, formate oggi non soltanto – o non più – dalla rappresentazione dei confini su una carta geografica. Come, per esempio: disgiunzione dei temi identitari, indebolimento delle argomentazioni politiche legate agli stati nazionali, guerre non-mediatiche o iper-mediatizzate, moltiplicazione dei mondi legata alla virtualità della Rete, sparizione progressiva dell’economia reale in favore di un mercato finanziario non circoscrivibile né tracciabile, difficoltà di reinserimento in una società altra rispetto a quella di provenienza.
Coniugare questioni tanto complesse a un ambito estetico, a un discorso corale, ma coerente, è compito apparentemente arduo. Eppure, alla Strozzina il risultato sembra essere stato raggiunto con grande leggerezza e semplicità. A partire dall’installazione-parassita Tadashi Kawamata, che campeggia sulla facciata principale di Palazzo Strozzi, in bilico tra temporaneità performativa e architettura progettata. Le sue piccole capanne formate da elementi di scarto recuperati in loco, vengono fabbricate da architetti, artisti, studenti chiamati a collaborare, di volta in volta, a seconda del luogo in cui l’artista si trova. In questo modo, a un’apparente reiterazione del tema si contrappone una sempre nuova ricerca dei contenuti relazionali necessari per realizzare concretamente il lavoro, come nel caso dell’installazione site-specific fatta utilizzando vecchie porte recuperate dai magazzini della fondazione e installate a soffitto con l’aiuto di persone del posto.
Sempre basato sulla presentazione di oggetti materiali è il progetto di Kader Attia, a metà strada tra la tassonomia biologica e la perdita identitaria, che si configura attraverso un percorso in due sale di cui la prima composta da disegni che mostrano gli organi del corpo umano e la seconda tappezzata di specchi rotti ricuciti con grossi budelli come fossero indelebili cicatrici nella storia personale e culturale dell’artista nordafricano. Le cicatrici, lungi dall’essere risanate, si mostrano come un elemento di riflessione – i curatori rinviano ad alcuni notissimi lavori di Giuseppe Penone come modello d’ispirazione – che chiunque si trovi a passare dalla sala deve esperire. E le cicatrici tornano anche in uno dei due video che aprono la mostra: realizzato dall’artista israeliana Sigalit Landau, mostra il corpo nudo della giovane donna che per più di 7 minuti rotea un hula-hoop formato da filo spinato e si staglia contro il mare mattutino su una spiaggia di Tel Aviv. Il corpo nudo come elemento di confine è qui doppiamente presente: anche nel secondo video Landau si trova in mare incapsulata in mezzo a una lunga spirale di 500 cocomeri, alcuni dei quali tagliati e avvolti attorno a lei. I forti contrasti cromatici esasperano la fragilità del corpo nudo aggredito dal sale e disperso in un orizzonte senza confini.
Il colore saturato, irreale, torna in una delle opere più significative in mostra: il progetto video e fotografico The Enclave di Richard Mosse. Utilizzando la pellicola a raggi infrarossi Areochrome, usata per scopi militari, e moltiplicando le visioni dell’opera attraverso il posizionamento di più schermi, l’artista riesce a raccontare le vicende molto complesse della guerra in atto tra la Repubblica Democratica del Congo e le milizie locali per il controllo dei territori di confine. Il colore cangiante e intenso rosa shocking delle riprese permetteva ai soldati di individuare armi e persone nascoste e serve a Moss per disvelare un complesso sistema geopolitico evitando qualunque retorica o presa di posizione. Il racconto è decostruito e stride con la precisione da reportage dei mezzi utilizzati. Questa tecnica, che include anche uno sfalsamento acustico, mette lo spettatore in una condizione di attesa inquieta e sfuggente: ciò che ci si attenderebbe dal racconto di guerra viene al contempo realizzato e disatteso tanto da rievocare le parole di Susan Sontag quando scriveva nel saggio Davanti al dolore degli altri che “le immagini delle sofferenze patite in guerra sono oggi così diffuse da farci dimenticare come solo di recente esse siano diventate quello che ci si aspetta dai fotografi più noti”. E questa attesa tradita trova il suo compimento nel raffinatissimo lavoro di Adam Broomberg & Oliver Chanarin che esasperano il confine tra realtà e finzione nel macabro scenario di una città costruita dall’esercito israeliano nel deserto del Negev che viene riprodotta in una complessa maquette, simbolo dell’intricato gioco di potere che sottostà la spinosa questione dei territori palestinesi. I grandi wallpaper – che visti da lontano somigliano a delicati arabeschi – sono in realtà fotografie di muri divelti con la nota tecnica del worming. L’apparente quiete dell’insieme è dovuta unicamente al suo alto grado di falsificazione.
Fino al 19 gennaio 2014
Territori instabili. Confini e identità nell’arte contemporanea
Centro di Cultura Contemporanea Strozzina
Palazzo Strozzi, Firenze