È possibile racchiudere più di 100 anni di storia della passerella in un’unica mostra?
Il Vitra Design Museum di Wil am Rhein ha tentato l’impresa con una grande esposizione dal titolo “Catwalk: The Art of the Fashion Show”, che ripercorre le “tappe” più importanti del fenomeno attraverso la messa in scena di abiti, oggetti, modelli architettonici, perfino inviti e pezzi di allestimento. Protagoniste sono ovviamente loro: Balenciaga, Chanel, Dior, Gucci, Maison Martin Margiela, Prada, Yohji Yamamoto e molti altri, in un’esposizione che, oltre a raccontare com’è cambiato il design della passerella in più di un secolo, vorrebbe far riflettere sulle trasformazioni sociali che la moda rappresenta.
Il tema è la storia della passerella e il rapporto con il design, l’architettura e l’arte, articolato in un percorso allestito in quattro sale all’interno del museo progettato da Frank O. Gehry. Ma più che agli esperti di fashion design e a chi lavora in questo settore, questa mostra sembra essere rivolta a chi della moda conosce davvero poco.
La mostra tenta di mettere in risalto i principali aspetti che rendono la sfilata una forma d’arte, con tutte le sue sfaccettature, a costo di lasciare indietro brand che ci saremmo aspettati di vedere o sfilate indimenticabili.
L’impressione è quella di camminare all’interno di una mappa concettuale con i fondamenti della materia, da approfondire necessariamente in un altro momento per saperne di più. Anche il catalogo che accompagna la mostra assume le sembianze di un piccolo manuale, organizzato come un dizionario dalla A alla Z contenente le “parole chiave della moda” (anche se manca qualche lettera, come la J di Jacquemus).
“Abbiamo sempre avuto interesse per questi approcci interdisciplinari e per temi che ampliano la definizione stessa di design” dice Mateo Kries, direttore del Vitra Design Museum. E in effetti lo sforzo di avvicinare la moda alle tematiche del museo, e al tempo stesso di costruire un racconto più completo possibile – almeno nelle tematiche – si vede.
La mostra curata da Jochen Eisenbrand e Katharina Krawczyk, insieme a Kirsty Hassard e Svetlana Panova (del V&A Dundee in Scozia) tenta di mettere in risalto i principali aspetti che rendono la sfilata una forma d’arte, come dice il titolo stesso, con tutte le sfaccettature che la caratterizzano, a costo di lasciare indietro brand che ci saremmo aspettati di vedere o sfilate indimenticabili.
Dai salotti privati al palcoscenico urbano
La prima sezione introduce le origini del fenomeno. A partire da Charles Frederick Worth, a cui si fa risalire l’origine della haute couture francese e che ha iniziato a “usare” il corpo reale come medium invece dei manichini, fino alla indimenticabile scala a specchi di Gabrielle Chanel, costruita nello storico atelier di Parigi. Quelle di inizio Novecento erano le sfilate intime dei couturier parigini, dove la moda era riservata (e visibile) a pochissimi – ancora meno che oggi. Ma c’è anche il celebre Théâtre de la Mode del 1945, una mostra itinerante che appare come un atto di resilienza estetica dopo la guerra, anticipando il ruolo sociale che la moda avrebbe assunto negli anni a venire.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, le sfilate abbandonano i salotti e cominciano ad insinuarsi nelle strade, nei locali, nei luoghi della cultura pop. Celebre è la sfilata di Azzedine Alaia nel 1985, al Palladium di New York, la discoteca che ha segnato la storia del clubbing newyorkese con un progetto di Arata Isozaki. Sono anni importanti per i creativi giapponesi: Kenzo trasforma le sfilate in feste e insieme a Kawakubo e Yamamoto, è parte di quella “rivoluzione giapponese” che a Parigi introduce un’estetica lontana dai canoni occidentali di bellezza.
Non manca la quota Italia, altra componente di questa seconda sezione che copre il trentennio ’50-’80, con la “sfilata” di Missoni sui gonfiabili dentro alla piscina Solari, nel 1967. Una sfilata all’epoca scandalosa, perché lasciava intravedere la nudità delle modelle – come ha raccontato Rosita Missoni a Domus – ma certamente memorabile, segno che i fashion show, in questo periodo, sono vere e proprie performance. È il tema della seconda sala: la liberazione del corpo e della passerella.
La moda come denuncia
Se gli anni Settanta sono stati per la moda un avvicinamento al mondo dell’arte e alla cultura pop, i Novanta vengono restituiti come un momento di euforia e sovraesposizione, in cui è la moda stessa a diventare pop. Sono gli anni delle Trinity Models - Naomi Campbell, Christy Turlington e Linda Evangelista, la modella che “per meno di 10mila dollari non mi alzo nemmeno dal letto” – ma anche gli anni del debutto di Maison Martin Margiela, nel 1988: in un momento in cui l’attenzione era focalizzata sui volti impeccabili delle top model, Margiela ha fatto sfilare i suoi modelli con i volti interamente ricoperti di trucco, irriconoscibili.
Sono gli anni della passerella come luogo di spettacolarizzazione ma anche di protesta e di preparazione al nuovo millennio, in cui il fashion show mostra il suo lato più radicale. La performance Models Never Talk di Olivier Saillard del 2016, di cui è visibile il video all’interno della mostra, è uno degli esempi più significativi: la sfilata diventa un dispositivo critico che espone il proprio meccanismo, e lo giudica.
Ogni volta che le grandi case di moda prendono una posizione politica, rischiano di allontanare clienti o, peggio ancora, di provocare una tempesta di critiche di qualsiasi tipo.
Jochen Eisenbrand, uno dei curatori della mostra
È così che all’interno della mostra emerge il ruolo di “denuncia” della moda in passerella, con sfilate dirompenti come quella di Alessandro Michele per Gucci nel 2018, dove modelle in abiti floreali passano accanto a tavoli chirurgici trasportando repliche di cera delle proprie teste.
Una riflessione sul ruolo politico della sfilata contemporanea è d’obbligo: “ogni volta che le grandi case di moda prendono una posizione politica, rischiano di allontanare clienti o, peggio ancora, di provocare una tempesta di critiche di qualsiasi tipo” dice il curatore Jochen Eisenbrand a Domus, provando a dare una risposta al silenzio di molti marchi sulle questioni più urgenti del nostro tempo. Secondo Eidenbrand, “la speranza sono i più giovani, che possono permettersi di osare di più, non solo per ciò che creano, ma anche per ciò che dicono” un po’ come abbiamo visto fare ai giovani degli anni Settanta.
L’architettura della moda, dal Grand Palais allo spazio digitale
Nel mondo iperconnesso in cui tutto accade in tempo reale, la moda continua a cercare il proprio spazio fisico e ad attingere dalla propria storia. La pandemia ha di certo accelerato le sperimentazioni, che hanno portato a intere Design Week digitali, come quelle del 2021 da Milano a New York, e a fashion show virtuali e originalissimi, come la collaborazione tra Balenciaga e I Simpson nel 2022, esposta nella quarta sala della mostra.
“La digitalizzazione aggiunge un ulteriore livello alle sfilate, ma non può sostituirle” commenta Eisenbrand, e forse è la sintesi del pensiero collettivo mentre assistiamo al fenomeno più in voga degli ultimi anni: sfilare all’interno di vere e proprie icone dell’architettura. Su una parete della quarta e ultima sala si vedono le immagini del defilé Ready-to-Wear di Chanel (autunno/inverno 2017/2018) all’interno del Grand Palais di Parigi, recentemente ristrutturato in occasione dei giochi olimpici.
È in questa sala, però, che si sente la mancanza di molte sfilate iconiche dei 2000, come quella di Jaquemus a Villa Malaparte e quella all’interno del monumento del partito comunista di Niemeyer, ma anche Dior al Palais Bulles di Pierre Cardin nel 2015, e poi Gucci alla Tate Modern e Louis Vuitton al Salk Institute progettato da Louis Kahn, di cui racconta Eisenbrand “avremmo voluto mostrare di più, ma sarebbe stato davvero troppo costoso”.
Credo che l’architettura e gli architetti avranno un ruolo sempre più importante per la passerella, perché riutilizzare questi edifici è un modo sostenibile per creare un’atmosfera meravigliosa senza dover costruire qualcosa di nuovo.
In compenso, anche a sottolineare l’importante e spesso sottostimato filo rosso che lega moda, architettura e design, c’è la giacca skyline di Virgil Abloh per Louis Vuitton, ispirata ai grattacieli della grande mela, e c’è la presenza di Oma/Amo, lo studio guidato da Rem Koolhaas, che insieme a Prada ha creato “la più lunga e duratura collaborazione tra uno studio di architettura e una casa di moda così rilevante”, attraverso la curatela degli spazi – come la Fondazione e i negozi – fino alle sfilate.
“Credo che l’architettura e gli architetti avranno un ruolo sempre più importante per la passerella, perché riutilizzare questi edifici è un modo sostenibile per creare un’atmosfera meravigliosa senza dover costruire qualcosa di nuovo” conclude Eisenbrand mentre ci troviamo all’interno degli spazi progettati da Frank O. Gehry, che in effetti hanno contribuito a rendere questa mostra qualcosa di unico.
Immagine di apertura: Le top model Linda Evangelista, Cindy Crawford, Naomi Campbell e Christy Turlington alla sfilata Versace Ready-to-Wear, A/I 1991/92, Milano. © Shutterstock, Foto: Paul Massey
