"Abitare a Milano" è la mostra alla Fondazione Mudima sulle opere realizzate da Ugo La Pietra, artista-architetto radicale, dagli anni Sessanta a oggi. Una raccolta di ricerche e sperimentazioni che hanno modificato il modo di agire/interagire nello spazio pubblico: la piazza. Dalla periferia al centro, il lavoro di La Pietra ha destrutturato il linguaggio artistico attraverso la teoria del Sistema Disequilibrante e professando la rottura dei confini disciplinari in favore di una contaminazione dei linguaggi: musica, cinema, performance, architettura, design. Membro di Global Tools, la scuola arts&crafts in salsa radicale, ha fondato le riviste tematiche In e In Più come manifesto teorico dell'architettura e del design radicale. Ugo La Pietra racconta a Domus la sua ricerca, le tematiche sottese alla mostra e il suo personale rapporto con la città, ieri e oggi.
Emanuele Piccardo: Fin dagli anni Sessanta sei stato un grande sperimentatore di linguaggi che hanno avuto come spazio di verifica la città in una dimensione artistica, poi anche architettonica, nel senso che l'architettura entra dentro le tue ricerche ma come sottofondo. Mi puoi raccontare i presupposti di questo approccio?
Ugo La Pietra: Nei primi anni Sessanta facevo opere bi e tridimensionali che mettevano in evidenza "segni" capaci di rompere una struttura programmata. Dorfles li chiamò "segni randomici" nella presentazione che fece a una mia mostra nel 1965. Quelle opere anticiparono di poco le prime esperienze nell'ambiente urbano, realizzate con le stesso metodo: intervenire con elementi di disturbo (dalla decodificazione fino alla provocazione) all'interno di realtà abitative, per far leggere la rigidità dei comportamenti degli individui all'interno della città organizzata "dai funzionari del traffico", i così detti urbanisti. Nacquero così opere e interventi a scala ambientale e la teoria che sostenne tutte quelle opere la chiamai Il Sistema disequilibrante.
Fontana rappresentò all'inizio degli anni Sessanta un importante riferimento soprattutto per il gruppo dei "pittori segnici" (di cui facevo parte con Sordini, Verga, Vermi, Ferrari), gruppo che agiva contemporaneamente agli "oggettuali" (Bonalumi, Castellani, Scheggi), ai "cinetici" (Colombo, De Vecchi, Anceschi, Varisco, Boriano), ai "programmati" (Munari, Mari). Gruppi molto diversi che avevano però qualcosa in comune: "fare barriera" all'invasione della Pop Art. Oggi rimane, in modo quasi analogo (senza però l'energia di quella età), la convinzione di lavorare per l'identità e le differenze. Quindi ancora "fare barriera" verso la globalizzazione, con la nuova invasione di futuri dominatori del mercato e della cultura.
In una società dove "il sistema dell'arte" vive e si alimenta non tanto attraverso l'opera d'arte ma soprattutto mediante il suo modo di comunicarla credo che, per chi voglia sperimentare (se per sperimentare s'intende – come è sempre stato nella storia dell'arte – mettere in crisi il sistema) lo possa fare agendo proprio sulla comunicazione dell'opera d'arte. Ancora non si vedono chiari segnali in questo senso nelle nuove generazioni. Il mio modo di operare dentro, fuori, attraverso le discipline, ieri come oggi, lo ritengo un esempio nella direzione sopra espressa.
Milano negli ultimi anni è cambiata moltissimo: sono cresciuti con la complicità del Comune "i ghetti" di extracomunitari; una grande parte di Milano (sempre grazie al Comune) è stata trasformata in una sorta di porto per la vendita all'ingrosso, dove centinaia di piccoli negozi riforniscono tutti i dettaglianti della regione creando un sistema di scambio di merci che ha travolto il vivere quotidiano di un quartiere. Non sono mai stati affrontati da un punto di vista progettuale anche solo di micro spazi (come quelli che in molte città europee chiamano Pocket Park), utilizzando il grande potenziale creativo e progettuale del design italiano e straniero che ogni anno invade (ma solo per fare festa!) la nostra città durante il Salone del Mobile. Il progetto dell'Expo, come tutti sanno, è un progetto inutile e fuori tempo (come la fiera campionaria) e potrà avere qualche utilità se servirà (una volta finita la manifestazione) a lasciare qualche traccia in grado di migliorare il nostro spazio urbano e la sua abitabilità.
Mi sembra che siano sempre più rare le riviste che affrontano i grandi problemi che stiamo affrontando con un vero dibattito culturale. Non ci sono riviste di design: da nessuna parte si sviluppa un confronto sulle grandi possibili trasformazioni del design; ad esempio ci sono manifestazioni e corsi universitari che parlano di "autoproduzione" senza accorgersi che in realtà stanno parlando di "autopromozione". Troppe le riviste di architettura che fanno a gara a chi riesce a pubblicare le opere più spettacolari, mentre sulle nostre di arti applicate e il loro totale abbandono (con la chiusura degli ultimi laboratori negli Istituti d'Arte) c'è un silenzio tombale! Questo argomento, ad esempio, avrebbe bisogno di maggiore tempo e spazio, ma è certo che riviste monografiche, intese come luogo in cui confrontare diverse tematiche da diversi punti di vista, sono ormai rarissime come d'altronde sempre più rare sono le mostre tematiche, capaci di produrre opere sperimentali intorno ad un argomento attuale.