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Il design è uno stato mentale
Attraverso un sintetico panorama storico del progetto dello scaffale, la mostra curata da Martino Gamper alla Serpentine amplia il concetto di designer, sia come individuo sia come professionista.
Senza scaffali non ci sarebbero collezionisti, e senza collezioni non ci sarebbero mostre. Ecco due delle idee alla base di “Design is a State of Mind”, la nuova mostra a cura di Martino Gamper alla Serpentine Gallery di Londra. Cercando di ampliare il concetto di design, la mostra amplia anche il concetto di designer, sia come individuo sia come professionista.
È la seconda volta che in questa sede un designer realizza una mostra dedicata alle esposizioni d’arte. Nel 2009 l’industrial designer Konstantin Grcic fu curatore di "Design Real", ma la mostra di Gamper ha poco in comune con questa precedente, e altrettanto interessante, iniziativa. Mentre la mostra di Grcic era allestita nello spazio espositivo principiale della Serpentine, quella di Gamper si trova nel nuovo spazio della Sackler Gallery, progettato da Zaha Hadid l’anno scorso. Mentre la mostra precedente faceva degli oggetti di disegno industriale dei feticci, grazie alla collocazione decontestualizzata su piedestalli candidi, questa volta gli elementi dell’allestimento hanno una parte fondamentale nel racconto della mostra.
Allineati lungo le pareti della sala ci sono circa quaranta scaffali di celebri designer, tra cui Anna Castelli Ferrieri, Charlotte Perriand, Gio Ponti e Dieter Rams, accanto a un esempio più umile: il sistema Ivar prodotto in serie da Ikea. Sui ripiani si affollano oggetti provenienti dalle collezioni di circa trenta amici o collaboratori di Gamper, tra cui i suoi maestri storici Ron Arad ed Enzo Mari, i colleghi Michael Marriott e Bethan Laura Wood, e l’artista Richard Wentworth.
“Design is a State of Mind”, a differenza di quanto accadeva con la mostra di Grcic, rivela forti affinità con il lavoro precedente di Gamper. Si tratta di un designer che a lungo si è sottratto alla categorizzazione, ma la cui carriera professionale, tanto nelle mostre come “100 Chairs in 100 Days” del 2007 quanto in manifestazioni come “Total Trattoria” del 2008, si è caratterizzata per l’assemblaggio (di persone come di oggetti) e per l’attenzione dedicata al processo piuttosto che al prodotto finito.
Sono interessi evidenti anche qui. La mostra offre un sintetico panorama storico del progetto dello scaffale. A partire dalla struttura modernista del 1934 del designer britannico Gerald Summer, procede dalla metà del secolo scorso alle esperienze postmoderne attraverso un’ovvia attenzione a designer italiani come i BBPR e Andrea Branzi, per arrivare poi alla contemporaneità con progetti come quelli di Gamper e Marriott. La mostra, pur mettendo in luce un filone di progetto di solito trascurato e comprendendo anche un’intera sezione di cataloghi di scaffali di tutto il mondo, si concentra più sugli oggetti contenuti nei singoli moduli e sul dialogo creato dai reciproci rapporti.
La tipologia degli oggetti è molto varia. Figurano qui alcune collezioni importanti, come la collezione di ceramiche di Bernard Leach di Gemma Holt e Max Lamb, ma in generale il valore è più emotivo che economico. Alcune raccolte rivelano le tendenze ossessive del collezionista, come le pietre e i ciottoli levigati e lustri di Michael Anastassiades, ben sistemati sul Booksnake Shelf di Gamper del 2002. Molte permettono di intuire aspetti inediti del lavoro del designer, e capire chi ha fatto che cosa è un gioco divertente. Non sorprende scoprire che gli involucri di plastica a colori vivaci sulla libreria di Campo e Graffi degli anni Cinquanta appartengono a Bethan Laura Wood, oppure che i modelli e i materiali sullo scaffale di Demetrius Comino del 1947 sono di Arad. Analogamente capire che l’assortimento di apparecchi elettrici sul modulo da parete di palissandro dello Studio PFR appartengono ad Anthony Dunne e Fiona Raby conferisce loro d’improvviso un’aura prodigiosa, dato l’atteggiamento critico dei designer nei confronti di queste tecnologie.
Ma ci sono altre collezioni più sorprendenti: chi avrebbe mai pensato che Marc Newson fosse tanto appassionato di coltelli o che Mari fosse un fanatico dei fermacarte? La collezione di Mari è di tali dimensioni che le viene dedicata un’intera sala, in cui tre vetrine illuminate da faretti creano un’atmosfera da Wunderkammer. La ricchezza della storia del collezionismo – e della relativa letteratura – nella mostra non viene messa in questione, ma Jurgen Bey in questo è un campione: la sua selezione di artefatti relativi agli animali, da una teiera ricoperta di pelliccia di Wieki Somers a un nido di vespe, è un esplicito riferimento all’Emporio celestial de conocimientos benévolos, la fittizia tassonomia zoologica di Jorge Luis Borges.
Il saggio di Borges del 1942 mette in luce la natura arbitraria delle collezioni, e tuttavia, nonostante il carattere disparato dei contenuti della mostra, essa evita ogni sensazione di casualità o di incoerenza. La ragione sta in gran parte nell’astuzia di certi accostamenti: le ciotole di Fabien Cappello e lo scaffale di betulla di Alvar Aalto hanno in comune linguaggio e natura costruttiva, mentre le affinità formali tra le stoviglie di legno biologiche di Ernst Gamperl e lo scaffale di legno Turnaround di Gamper, del 2011, rendono difficile dire dove finiscano gli oggetti e dove inizi lo scaffale. Uno sconfinamento senza dubbio intenzionale tra gli artefatti del ‘progettista’ e i suoi oggetti quotidiani.
“Design is a State of Mind”, pur apparendo abbastanza esoterica, data la ristrettezza della cerchia dei designer di cui presenta gli oggetti, raggiunge un obiettivo popolare. Presenta oggetti la cui varietà di stili e gusti, e la cui natura a buon mercato, vanno oltre i confini del genere di oggetti normalmente esposti nelle mostre d’arte o di design. Perciò ci ricorda che sono parte della cultura del progetto quotidiano quanto le proposte più elitarie del design, e che sono altrettanto degni di attenzione.