

La sua riflessione sulla fragilità dell’opera d’arte si spinge in alcuni casi fino al punto di distruggere i suoi stessi lavori al termine di una mostra, perché?
La mia volontà è quella di posizionare il lavoro in un contesto di totale vulnerabilità dove è altamente improbabile che si possa conservare. Uno dei miei pezzi preferiti è un’opera degli anni Settanta di Chris Burden nella quale due grandi croci di legno a forma di X vennero piazzate in mezzo a una strada e poi incendiate. Questo lavoro ha avuto un unico spettatore: la persona che doveva guidare il camion fino alla location scelta per la performance. Nella mia visione, l’opera è fatta per essere fruita in un preciso momento.

L’aspetto artigianale è molto importante nella sua ricerca. Per le sue opere in vetro, collabora da diversi anni con lo York Glaziers Trust, uno dei laboratori di restauro e conservazione di vetrate artistiche più antico d’Europa.
Sono molto interessato all’aspetto manuale del lavoro; credo che tutto ciò che sia fatto a mano abbia una memoria propria e possa – per così dire – intrappolare il tempo. L’artigianalità si collega anche all’importanza del disegno; penso che l’elemento chiave, specialmente in queste tre vetrate, sia proprio l’aspetto strutturale. Lavorare con un materiale come il vetro incoraggia a seguire regole precise nel disegno per rendere l’opera solida e stabile, avvicinandomi a problematiche architettoniche.

Il suo lavoro in vetro sembra anche avere tangenze con la musica e la matematica. Come in un algoritmo o in uno spartito, la sequenza dei singoli pezzi segue uno schema estremamente preciso.
La musica m’interessa molto e io stesso suono da diversi anni. Di alcuni strumenti, come il pianoforte, ad affascinarmi è l’abilità di assorbire la performance dell’artista trasformandosi da macchina in organismo. Penso che lo stesso accada al materiale nel processo di realizzazione di un’opera d’arte: assorbe la performance dell’artista. Anche la matematica rientra tra i miei interessi, ma non sono uno studioso del campo, ho un rapporto piuttosto semplice ed empirico con questa materia. Quando mi trovo di fronte a un palazzo antico, cerco sempre di capire come i carpentieri abbiano risolto molte delle problematiche strutturali.

Per realizzare i suoi lavori si avvale dell’uso del computer?
Non utilizzo il computer né nella fase creativa né per costruire le strutture o le sequenze, il lavoro è rigorosamente manuale. Lo uso solo nella fase finale, come farebbe un architetto, per trasportare il disegno originale in una versione leggibile da tutti i miei collaboratori.
Essendo lei originario di Glasgow, sente un collegamento tra il suo lavoro e la tradizione della scuola di Mackintosh?
Sicuramente c’è stata un’influenza, non sul piano delle direttive estetiche che il movimento arts and crafts aveva delineato, ma su quello teorico e politico che esaltava la dignità del creare attraverso il lavoro quotidiano e l’artigianalità. Mackintosh m’interessa; è certamente un grande architetto, ho frequentato la Glasgow School of Art progettata da lui e non c’è dubbio che quella struttura imponente abbia avuto un impatto forte su di me. Nonostante la mia prima passione sia stata la pittura, l’architettura mi ha sempre influenzato molto e continua a farlo.

La foglia d’oro e il vetro piombato sono tecniche che ci riportano all’arte medievale, in Europa ma anche nel mondo arabo. Che valore hanno questi riferimenti culturali nel suo lavoro?
Storicamente sono sempre stato interessato dal periodo di contaminazione tra Oriente e Occidente in cui negli edifici europei si cominciavano a vedere dei dettagli di chiara influenza islamica. Sicuramente, dunque, il Medioevo è per me un periodo di grande interesse, in particolare la pittura. Amo molto l’opera dei fratelli Lorenzetti di Siena dove la geometria e la pulizia del disegno si fondono con uno sguardo mistico.
Tradizionalmente, le finestre di vetro piombato venivano usate soprattutto nelle chiese, così come la foglia d’oro in pitture e decorazioni a soggetto sacro. Il suo lavoro è in qualche modo collegato a una riflessione spirituale?
Piuttosto che spirituale preferisco usare il termine immateriale, riallacciandomi al concetto che alcuni materiali ricordano o contengono il tempo, anche se il mio lavoro non ha nessuna componente religiosa diretta. M’interessa, invece, l’elemento di sacrificio e di devozione che è presente nel dedicare il tempo a qualcosa che come l’arte non è palesemente necessaria, ma che serve a nutrire lo spirito.

Molti importanti capolavori del passato sono stati realizzati in vetro piombato: la Cappella del Rosario decorata da Matisse a Vence, o l’iconico rosone di Notre Dame a Parigi. Qual è il suo rapporto con la tradizione?
Di grande ammirazione. Quando osservo questi esempi rimango sempre sbalordito: le soluzioni trovate e la risoluzione di dinamiche complesse sono continue fonti d’ispirazione. In generale, il mio interesse per l’architettura del passato non si limita all’osservazione delle forme, ma anche a quella dei piccoli gesti di chi questi spazi li vive, come un’anziana signora che entra in una cappella e lascia dei fiori. Le azioni cambiano lo spazio, le azioni possono entrare nella memoria della situazione, questa possibilità è per me molto stimolante.
Attualmente, sta lavorando a un’importante opera commissionata dalla Crossrail di Londra, che coinvolgerà la stazione di Tottenham Court Road. Cosa può dirci in proposito?
Si tratta di un grande spazio pubblico attraversato ogni giorno da migliaia di persone, un luogo di transizione dove il mio intervento, che sarà collocato sul soffitto, sarà osservato dalle persone che sono in movimento: salendo una scala mobile o entrando in un ascensore. Uno dei problemi dell’arte di oggi è quello di coinvolgere un pubblico non propriamente del settore, questa è per me la sfida più grande del progetto.
fino al 18 dicembre 2015
Richard Wright
Gagosian Gallery Rome
via Francesco Crispi 16, Roma