È una performance in cinque atti quella che Vadim Zakharov, esponente dei concettualisti moscoviti, ha messo in scena al padiglione russo, ai Giardini della Biennale—a cura di Udo Kittelmann e con la supervisione del commissario Stella Kesaeva. Punto di partenza e pretesto formale del lavoro di Zakharov è il mito greco di Danaë, che aveva già ispirato opere d’arte—come il quadro di Tiziano dipinto nel 1553 o quello di Rembrandt, dipinto tra il 1636 e il 1647 e danneggiato da un vandalo nel 1985, all’Hermitage—e che ruota attorno ai temi del potere e del fato. Nulla infatti poté il re Acrisio di Argo contro la profezia sulla propria morte, a opera del nipote Perseo: aveva cercato di combatterla rinchiudendo la figlia Danaë in una torre di bronzo (o in una caverna), che però Zeus mise incinta andandola a trovarla sotto forma di pioggia d’oro. Madre e figlio riuscirono poi a sopravvivere anche al mare, dove erano stati abbandonati da Acrisio dentro a una cassa di legno.
L’opera di materializzazione del mito di Danaë e la sua riproposizione in chiave moderna ha pervaso tutti gli ambienti del padiglione russo e ha richiesto un intervento strutturale inedito dalla sua costruzione, avvenuta nel 1914 per mano di Alexei Shchusev: la creazione di un’apertura tra i due piani. Da un foro passa il secchio colmo delle monete coniate da Zakharov—ognuna è una Danaë—, distribuite lungo un percorso circolare: cadute dal soffitto del primo piano come pioggia fino a raggiungere il piano terra, sono raccolte da donne protette da un ombrello per essere poi riposte nel secchio issato a mano al primo piano e quindi re-immesse nel circuito che le porterà di nuovo al soffitto. La performance agisce su più piani—culturale, filosofico, sessuale e psicologico—e coinvolge i visitatori nella messa in scena di un mito e dei suoi valori.
“Il mio lavoro per la Biennale è strutturato su più livelli”, racconta Zakharov. “Non agisce solo su un piano di genere, estetico o politico, ma su tutti simultaneamente. Questo garantisce la durata nel tempo, rende quest’opera universale e fuori dal tempo”.
Ai Giardini, gli elementi formali del mito ci sono tutti, ma sono usati strumentalmente per rovesciare i giochi di potere tra uomini e donne indicati dal mito greco e, soprattutto, per rimettere in primo piano alcuni valori che Zakharov ritiene trascurati dalla società di oggi, oltre che per condannarne altri. Al padiglione russo le donne non sono osservatrici passive o strumenti nelle mani degli uomini, ma forza propulsiva di tutto l’edificio, motore del meccanismo di circolazione delle monete: quelle piccole Danaë coniate appositamente dall’artista che si fa garante dei valori che propugnano—fiducia, coesione, libertà, amore. “Penso che si debba parlare sempre più di valori, perché li stiamo perdendo”, afferma.
È dalla stanza delle donne al piano terra—simbolo del ventre materno e dove agli uomini è proibito entrare—che ha inizio il percorso a tappe dell’installazione. Chi vi entra ha il compito di raccogliere le monete, quante ne vuole, tenerne una per sé e riporre le altre nel secchio che si trova prima dell’ingresso alla stanza-gineceo, così da alimentarlo con valori positivi da immettere di nuovo nel circuito che anima l’edificio