Il deserto cileno di Atacama è uno dei luoghi più asciutti del mondo. Con una piovosità annuale tra 1 e 15 millimetri, un cielo sgombro da nubi per 336 giorni l’anno e imponenti alture che significano punti d’osservazione appena un poco più vicini al cielo, il sito è stato scelto specificamente per ottenere le migliori condizioni di osservazione dalla superficie terrestre. Che lo scenario sia profondamente fotogenico, per non parlare dell’inaccessibilità alla grande maggioranza del pubblico dei fan dell’astronomia, si è rivelato una specie di vantaggio inatteso: le belle foto piacciono a tutti e quattordici telescopi in cima a una montagna nel deserto sono un gran bel soggetto fotografico.
L’alone mitologico che circonda il VLT e il suo remoto sito non ha fatto che intensificarsi nel 2002, quando gli astronomi dell’osservatorio si sono trasferiti dai loro rifugi dal tetto di lamiera in una nuova, bella sede. Con il progetto dello studio tedesco Auer+Weber la ESO ha ottenuto una volta di più un inatteso successo estetico di visibilità a partire da obiettivi prevalentemente funzionali. Il clima secco, se è propizio all’osservazione delle stelle, è molto meno soddisfacente per la condizione dell’uomo. Basta qualche ora all’esterno o nelle sale di controllo e ci si sente come dopo l’immobilità forzata di un volo intercontinentale: secchezza delle fauci, del naso e degli occhi. In primo luogo la Residencia è stata pensata come antidoto agli effetti fisiologici collaterali del lavoro al VLT. L’atrio di ingresso, mentre da un lato assomiglia a quello di un qualunque albergo moderno, con il portiere e l’arredamento di lusso, dall’altro è interamente invaso da un giardino subtropicale e da una piscina. Una piscina nel deserto è certamente una visione inattesa, ma si nota subito il cambiamento dell’ambiente fisico: l’umidità rende più facile respirare correttamente, gli occhi dolgono meno, il naso non è così secco.
Per prima cosa l’immagine romantica dei cosiddetti astronomi del Settecento e dell’Ottocento, che puntavano il telescopio nel buio e passavano lunghe nottate a prender nota delle loro osservazioni, è superata da un pezzo. Come accade spesso nel caso dei grandi progetti scientifici (per esempio con il Grande Collisore di Adroni), le diffusissime immagini delle attrezzature tecniche del VLT, per quanto visivamente affascinanti dicono troppo poco della storia dell’altrettanto affascinante tecnologia ingegneristica che permette ai telescopi di osservare gli astri celesti. I quattordici telescopi che costituiscono il VLT non hanno bisogno di occhi umani. Ogni notte vengono catturati e scaricati dalle ottiche dei telescopi circa 20 GB di dati: per esaminarne una tale quantità occorrerebbero parecchie vite. In realtà quasi ogni aspetto dell’osservazione astronomica del VLT è gestito da un computer: il processo di scelta degli obiettivi cui dedicare il tempo di osservazione dei telescopi, l’ottimizzazione del programma d’osservazione in modo da garantire la più efficiente distribuzione del lavoro dei telescopi, l’osservazione stessa e la manutenzione periodica.
Il concetto di nitidezza, ovvero la relativa chiarezza dell’osservazione astronomica, è curioso: inizio a sospettare che stia al centro del mio tentativo di comprendere il processo di formazione delle immagini.
Nel corso dei due giorni della visita al Paranal sono stata così fortunata da trovarmi nella sala di controllo principale nella notte di una first light, ovvero, nel gergo degli astronomi, della prima osservazione registrata da un nuovo strumento. Sphere, così è stato battezzato il nuovo strumento, è stato progettato e finanziato da un consorzio francese appositamente per osservare i pianeti extrasolari. È stato necessario un lungo percorso di otto anni di raccolta di finanziamenti, di progettazione, di fabbricazione e infine d’installazione al VLT. Ci sono stati grandi applausi e grandi pacche sulle spalle, qualcuno ha aperto una bottiglia di champagne. Un momento straordinariamente commovente.
Il mattino seguente chiedo a Juan-Carlos Muniz, astronomo dell’UT3, di mostrarmi alcune delle primissime immagini catturate dal nuovo strumento. Dato che si tratta della prima prestazione di Sphere, spiega Juan-Carlos, lo strumento non ha fatto che puntare verso una stella per controllare l’effettiva precisione del puntamento. L’immagine che proietta sullo schermo è un rettangolo nero disseminato di un gran numero punti bianchi, con due puntini arancione sfocati, un po’ più grandi, in mezzo: sembra lo sfondo di un vecchio gioco di battaglie spaziali Atari. Nulla a che vedere con le immagini astronomiche che sono abituato a vedere.
Nella postazione seguente un cordiale giovane neolaureato americano di nome Grant, che si sta specializzando sugli ammassi di galassie, mostra un’altra immagine. È un grafico tormentato, una linea arancione che oscilla su e giù come il profilo di una catena di montagne disegnata da un bambino su un’altalena. Sono dati spettrografici raccolti dall’UT2, i cui strumenti sono soprattutto dedicati alla spettroscopia. I miei vaghi ricordi sulla spettroscopia alle lezioni di chimica organica dell’università mi fanno venire in mente risultati di aspetto totalmente differente da questi grafici di puri dati. Chiedo a Grant di spiegarmi il significato del grafico e lui fa un generoso tentativo, ma alla fine ammette che non è facile come osservare e decodificare. Ci vogliono tempo e parecchie ore di confronto dei dati per svelare i misteri dei dati spettrografici. Mi colpisce una cosa che Grant butta là come un’osservazione senza importanza: “Per un astronomo, soprattutto per uno spettroscopista, in questo grafico c’è altrettanta bellezza, e forse di più, che nelle belle foto diffuse tra il pubblico”.
Ma se le immagini delle pagine di Popular Scientist non vengono direttamente dall’osservazione al telescopio – che assomiglia invece alla schermata di un videogioco degli anni Ottanta – da dove vengono? E per di più, se non sono particolarmente utili agli astronomi, perché vengono realizzate?
Essenzialmente, a quanto pare, i rutilanti colori delle fotografie di remote nebulose sono un grande successo di pubbliche relazioni. Non sono i telescopi a scattare, come macchine fotografiche, foto pubblicabili: le immagini di osservazione sono più che altro simili a puri insiemi di dati, non particolarmente utili a comunicare i meravigliosi trionfi dell’astronomia al pubblico dei curiosi. Un’ultima conversazione con Juan-Carlos e con Francisco Rodriguez, dell’ufficio relazioni esterne dell’ESO (che è stato anche la mia eccellente guida locale) è particolarmente illuminante. Il fatto è che, nella sede centrale tedesca dell’ESO di Garching, abili progettisti grafici provvedono a creare, sulla base dei dati di osservazione originali e grazie a Photoshop e a una specie di stenografia, le spettacolari immagini roteanti che vengono diffuse in tutto il mondo.
Per riassumere le lunghe spiegazioni tecniche di Juan-Carlos: i colori di quelle belle immagini non hanno in realtà lo stesso aspetto di quelli del cielo. Vengono invece usati come una specie di stenografia. “È più che altro una questione percettiva”, spiega con filosofia. I toni fucsia o rossastri che compaiono nell’immagine di una nebulosa sono una specie di codice visivo che rappresenta valori come la temperatura (i toni più intensi del rosso generalmente indicano temperature più elevate, i toni azzurri il contrario) o la composizione chimica (i toni rossi possono anche indicare, per esempio, la presenza di idrogeno, dato che la lunghezza d’onda di 656 nanometri di H-alfa si trova verso l’estremità del rosso dello spettro). Mentre cerco di decidere se questa notizia è deludente oppure interessante, Juan-Carlos interrompe i miei pensieri: “C’è chi pensa che la scienza distrugga la magia della natura svelandone i trucchi, ma sapere che gli atomi del mio corpo sono arrivati da una stella morta da moltissimo tempo non rende la cosa meno stupefacente”.
Alla fine decido che non è un cattivo punto di vista. I grandi progetti scientifici come il VLT e l’LRC hanno dovuto entrare nel gioco della creazione dei miti attraverso immagini parzialmente manipolate intese come uno dei tanti mezzi per raccogliere e conservare un più ampio sostegno di pubblico. Ma ciò non significa che nella meraviglia della gente, nel luogo, nella tecnologia, nella scienza e nelle immagini stesse la magia non ci sia più.