Jean-Louis Cohen – storico dell’architettura di provata reputazione internazionale e commissario della mostra – sostiene una tesi molto chiara: la guerra ha accelerato i processi d’innovazione tecnologica e ha provocato un cambiamento di mentalità che ha condotto – dopo il 1945 – a una supremazia incontestata dell’architettura moderna. In tal senso, l’esposizione esplora gli sviluppi dell’architettura durante la Seconda Guerra Mondiale, analizzando gli effetti del conflitto sia sull’ambiente costruito sia sulla disciplina architettonica stessa. Ne esce un affresco singolare della mobilitazione totale d’interi territori e città, della minaccia compiuta delle occupazioni, dell’orrore delle distruzione e della necessità della ricostruzione. Fra disegni originali, fotografie e plastici, spezzoni radio e filmati del periodo, non mancano i manifesti di propaganda pro o contro il nemico e gli appelli all’eroismo patriottico tradotto in efficienza, pulizia, minimizzazione delle risorse. L’apertura è toccante grazie alle foto di architetti impegnati a vario titolo in guerra: alcuni sono morti combattendo, mentre altri disegnavano campi di concentramento. E ci mette subito in sintonia con qualcosa di profondo: la vita e la morte, con l’architettura come denominatore comune.
La zona di combattimento non è più una linea
Uno degli aspetti maggiormente esplorati dalla mostra è l’impatto avuto dall’aviazione nel decretare aperta un’era in cui il nemico oltre che per terra arrivava dal cielo. L’aviazione, di fatto, annulla le mura come apparato di difesa, ne elimina l’utilità e il senso.
Da sempre, in effetti, le armi hanno esercitato un’influenza diretta sulle forme dell’abitato e dell’architettura: le città di fondazione romana erano a uso delle milizie; i vicoli curvi delle città medievali nascevano dalle dinamiche di scontro fra cavalieri e pedoni; Michelangelo progettava mura di città in forma di abbraccio, aperte ad accogliere le cannonate nemiche, e si misurava con la crescente influenza che avrebbe avuto la polvere da sparo; le mura delle città finiscono per sparire, infine, quando gli stati nazione assicurano che nessun esercito possa più invaderle. Fino al salto di scala sostanziale dovuto, non alle frecce né ai cannoni, ma al caccia bombardiere.
Nella prima sezione della mostra, la zona di combattimento non è più una linea ma diventa una superficie. La seconda sezione porta alla luce il discorso autarchico al quale gli stati sono obbligati: le materie prime sono messe al servizio dei Paesi in guerra. La ricerca scientifica viene vista come un mezzo per portare alla vittoria, ma offre anche una nuova etica fondata sull’economia e il riciclaggio. Un esempio su tutti è lo sviluppo dell’isolamento termico degli edifici, sorta di primo laboratorio di architettura sostenibile.
Costruire rapidamente
Le sezioni successive offrono uno spaccato sulla costruzione di fabbriche e alloggi operai: Perret e Le Corbusier sperimentano nuove possibilità spaziali e le industrie americane si spostano lontano dalle frontiere per evitare possibili attacchi. Negli USA, ciò porterà – grazie all’Housing Act – alla costruzione di 625.000 nuovi alloggi, per la maggior parte temporanei, vicino alle fabbriche di armi e che nel 1945 – già vetusti – verranno distrutti. La necessaria mobilità delle forze impegnate nella guerra conduce all’elaborazione di sistemi che permettano di costruire rapidamente dei prefabbricati per alloggiare le truppe. Si sperimentano sistemi modulari che permettano una produzione industriale massiccia, facile da mettere in campo.
Sul fronte nemico, i nazisti concepiscono delle fortificazioni quali la Linea Maginot e il Muro dell’Atlantico, lungo 2.685 km, dalla Norvegia ai Paesi Baschi, e punteggiato da migliaia di case matte e fortini abbandonati sulle coste a guerra terminata. La minaccia aerea porta a dover inventare dei campi di evacuazione per le popolazioni civili. Viene verificata la solidità degli immobili esistenti e la possibile trasformazione in rifugi. Mentre gli edifici di nuova costruzione vengono pensati per ospitare migliaia di persone per la protezione anti-aerea.
Disegno dell’invisibile, dispersione delle folle
Le competenze visuali di architetti e paesaggisti vengono messe al servizio di quello che viene chiamato – da Salvador Dalì – “il disegno dell’invisibile”. I servizi di camuffamento sono sviluppati con un approccio scientifico atto a dissimulare batterie di cannoni, bunker isolati o anche interi villaggi. Nelle università americane vengono insegnati dei corsi specifici per imparare a nascondere il costruito ai caccia bombardieri. Il dover veicolare informazioni sia ai civili sia ai militari coinvolge qualsiasi campo della rappresentazione grafica: mappe, carte e diagrammi. La necessità di comunicare da parte di designer e architetti è determinante per concepire dispositivi che hanno come fine di rinforzare l’adesione popolare agli sforzi di guerra.
L’assembramento e la dispersione razionale delle folle al fronte e nelle retrovie diviene un tema principale. Hilberseimer afferma che la principale tendenza dell’epoca va verso il progetto su grande scala. A Washington, il Pentagono s’integra al centro di un ampio sistema di autostrade e parcheggi, sfruttando in modo razionale le connessioni fra varie parti di un edificio che deve essere attraversato in tutta velocità senza perdite di tempo. La stessa cosa succede ad Auschwitz, campo di concentramento costruito in seno a una grande agglomerazione industriale situata al crocevia di vie ferrate che connettono varie città strategiche d’Europa.
Flessibilità, normalizzazione, prigionia, processi
Altre due parole chiave sono flessibilità e normalizzazione: adattare gli immobili esistenti ai nuovi usi (come alloggiamento di truppe, ospedali di fortuna e carceri per i prigionieri) diventano priorità. Di contro, le costruzioni militari sono pensate per essere reversibili e adattarsi al dopoguerra. Ernst Neufert definisce la sua opera normatrice con dimensioni standard per qualsiasi tipo di spazio o elemento architettonico.
Non mancano le storie di prigionia: da Quaroni prigioniero degli inglesi sull’Himalaya (con altri 20.000 soldati) – che produce centinaia di disegni per una chiesa votiva a Dehra Dun –, a Henry Bernard – architetto francese internato in un campo tedesco, che convince i nazisti ad avere un solo campo dove verranno raggruppati 448 prigionieri architetti, una vera e propria Ecole di Beaux-Arts in esilio nel campo di Stablack. Qui, vengono organizzati dei concorsi d’architettura i cui disegni inviati a Parigi sono giudicati da giurie speciali. Bernard, una volta di ritorno nella capitale francese liberata, organizzerà una mostra con i lavori dei deportati di tutti i campi.
Dan Kiley, disegna gli spazi che a Norimberga ospiteranno il processo agli orrori della guerra. Il cantiere occuperà quasi 1.000 operai e metterà faccia a faccia giudici e accusati: per la prima volta in un tribunale vengono proiettati dei filmati su grandi schermi. La sala serve a mettere in scena il processo: i vincitori smontano i meccanismi dei vinti e dei loro imperi assassini. Il ritorno a casa dei militari coincide con una ritrovata vita civile: il popolo è adesso pronto ad accettare nuovi materiali e soluzioni costruttive moderne anche all’interno dell’architettura domestica. Buckminster Fuller tenta nel 1946 di convertire la fabbrica aeronautica di Wichita in un centro di produzione della sua innovativa Dymaxion Dwelling Machine.
Fino all’8 settembre 2014
Architecture en uniforme
Projeter et construire pour la Seconde Guerre mondiale
Cité de l’architecture & du patrimoine