Se l’Estate vivaldiana è l’alta stagione dell’architettura, il Serpentine Pavilion ne è il tema d’apertura: la misurata e maestosa transizione dal lungo inverno britannico al frenetico attivismo e ai cieli cristallini della piena estate.
Forse per questo il padiglione attira sempre certo giornalismo pigro, come se la stampa nell’insieme non avesse ancora bevuto il primo caffè della giornata. Si leggono storie infinite raccontate come se fossero scritte in stato di dormiveglia, che trasudano lirismo onirico e metafore fantasiose, prolisse e stravaganti, ma pressoché universalmente acritiche.
E, nel raro caso in cui un padiglione riceva brutte recensioni, si tratta invariabilmente di insulti infantili scagliati contro l’architetto in una specie di incontinente malumore: “Nouvel sembra un buttafuori di mezza età” (Edwin Heathcote, Financial Times), “Ho sentito l’odore di Jean Nouvel prima ancora di vederlo” (Tom Dyckhoff, The Times), “L’edificio monocorde di un architetto un tempo straordinario” (Ellis Woodman, The Telegraph). In effetti il proteiforme padiglione rosso di Nouvel del 2010, benché abbia avuto accoglienze tremende, resta l’unico tentativo di allargare il coinvolgimento del pubblico oltre il carissimo caffè di Fortnum & Mason. Insieme con gli aquiloni, il pingpong, la dama e gli scacchi gratis per un po’ è diventato l’unico edificio di Knightsbridge che non costringesse a sborsare denaro per goderne le attrazioni.
Ma, cosa più importante, manca totalmente una critica del Serpentine Pavilion in quanto progetto istituzionale. Che i media accettino o rifiutino questa o quella forma è questione di capriccio. Per gli architetti l’ambizione del progetto di fornire una base destinata a professionisti poco noti funge da estrema occasione di visibilità di chi è già famoso. Il requisito di non aver mai costruito in Gran Bretagna non fa che accrescere il carattere di unicità del gioiellino.
Per i visitatori i padiglioni non hanno alcuno scopo palese se non quello di farsi guardare. E invece chi passa di lì per lo più non dedica gran tempo a guardare (quattro-sei minuti). Probabilmente parecchi si fanno scoraggiare dagli spazi sempre incentrati su un caffè con troppi camerieri ben vestiti, in paziente attesa dell’ordinazione di un ‘americano’ da 3 sterline.
L’unica istituzione cui davvero i padiglioni sono utili è ovviamente il museo. Al di là delle vacuità retoriche si tratta di pubblicità per la pubblicità.
È un vero peccato, perché lo sfumato padiglione di Sou Fujimoto probabilmente è il più bello di tutti quelli realizzati finora. Non si tratta di un puro capriccio architettonico: Fujimoto è sincero nella sua affermazione sul futuro dell’architettura e sulla sua posizione nel mondo. Da persona beneducata, tranquilla, rispettosa, parla lentamente ma si spiega con eloquenza e con nitidezza precisa. Noto subito uno schema nel modo in cui risponde alle domande: prima un’osservazione riguardosa e positiva, poi la sua opinione.
Gli chiedo a che cosa serva concretamente la struttura e quale sia il suo scopo. Risponde: “È fatta per i londinesi e per i turisti di molti paesi differenti, perché si trovino bene nel parco”.
E dopo una pausa aggiunge più sommessamente: “Naturalmente abbiamo qualche altra idea che non riguarda il presente ma il futuro dell’ambiente urbano. Un padiglione di queste dimensioni non dovrebbe sottostare a requisiti troppo concreti, perché ciò potrebbe limitarne la vita al presente. Non dovrebbe essere fatto per l’oggi, ma per quel che sarà tra venti o cinquant’anni. Il pubblico si fa un’idea di come questo ambiente di vita possa rappresentare il futuro della città, o della casa, o del parco. Mi piace creare queste immagini di fantasia e spero che le persone vivano, semplicemente passando di lì, questo sogno delle potenzialità dell’architettura”.
Parla di Le Corbusier e di quanto abbia subito l’influsso del Modulor. Una semplice unità di misura fondata sul corpo umano, dice, ha il grande potere di armonizzare e di integrare scale differenti. Le Corbusier è anche importante per il modo in cui usa piccoli progetti per esprimere idee grandiose. Poi parla di come il padiglione di Toyo Ito del 2002 abbia suscitato molto interesse in Giappone, ulteriormente accresciuto da SANAA nel 2009. Ho l’impressione che il padiglione di Fujimoto rappresenti una piattaforma, un messaggio in codice, una dichiarazione d’intenti diretta alla sua patria (come a qualunque paese o a chiunque altro, beninteso). Quando gli chiedo se prevede di tornare a costruire in Gran Bretagna mi guarda vagamente divertito: “Mi piace molto la Gran Bretagna, e mi sento molto ben accolto”. Pausa. “Attualmente non ho intenzione di costruire qui”. Ma le piacerebbe? “Per ora il mio lavoro è in Giappone”.
Per chi viene da fuori il complesso ordinamento sociale giapponese a volte può essere incomprensibile. Ma sicuramente una cosa che mi ha sempre colpito è la continuità tradizionale tra le varie generazioni di architetti, mentre in Occidente ogni nuova generazione deve per forza abbattere, rifiutare (addirittura condannare pubblicamente) i suoi predecessori, i giapponesi appaiono in sintonia e rispettosi.
Al contrario Kengo Kuma mi ha confidato recentemente che non è che, solo perché beve sake e fa il karaoke con Ito e Sejima (parole sue), si astenga dallo sfruttare ogni occasione di distinguersi e di affermare la propria autonomia. Da più giovane architetto giapponese che abbia mai costruito il padiglione, come si è confrontato Fujimoto in rapporto con questo tipo di cultura, rispetto a Ito e a SANAA?
“È vero che abbiamo un buon rapporto tra generazioni. Io non ho lavorato con Ito-san o con SANAA, ma sono entrambi molto aperti e generosi. Sanno apprezzare e far progredire i giovani. Amano sapere che cosa succederà e in che cosa consistono le energie più giovani. È una cosa bellissima. Abbiamo questo bel sostegno.” Pausa. “Ma allo stesso tempo discutiamo di architettura.”
Chiedo se sia difficile non essere d’accordo. “Non è che dobbiamo solo dire di sì. Certe volte esprimiamo le nostre opinioni e le nostre obiezioni, il che fonda il nostro rapporto sulla reciproca fiducia. Se si dice ogni volta solo sì, vuol dire che in una situazione differente si potrebbe dire no, il che mina la fiducia. Questo è il discorso. Non ci sono litigi. Oggi ho 41 anni, sta arrivando la generazione dei più giovani, e alcuni di loro hanno parecchio talento. Perciò abbiamo una responsabilità nei confronti dei più giovani, quella di aiutarli e di incoraggiarli, così come ho visto l’atteggiamento di Ito-san e di Sejima-san rendere più dinamica, più attiva l’atmosfera dell’architettura giapponese.”
Girando intorno al padiglione la forma cambia radicalmente, e in un modo per cui è difficile dire di quale forma si tratti. Di solito alla critica d’architettura (e alla Serpentine Gallery) i padiglioni senza forma non piacciono, come se ogni edificio dovesse essere riducibile alla propria icona da 32 pixel. A differenza del caso di Nouvel le reazioni riservate a Fujimoto sono state prevalentemente positive, il che mi fa pensare che ci possano essere vari tipi di assenza di forma.
“Sono d’accordo. Ho visitato di persona il padiglione di Nouvel”, risponde Fujimoto. “Da lontano era un quadrato rosso su uno sfondo verde; era molto bello. Dentro non si capiva bene la forma, o come funzionasse la struttura, né come fossero fatti gli spazi. Era solo rosso, e poi meno rosso, e poi più rosso… Mi piace questa impostazione dell’architettura che non si concentra sulla forma dell’oggetto ma sulle qualità dell’esperienza soggettiva, è una cosa che mi ha sempre affascinato.”
E prosegue: “A me importava realizzare una struttura che avesse certo una forma, ma una forma ambigua. Se si sta fuori del padiglione la forma è indefinita. Da differenti prospettive si hanno percezioni completamente differenti. Se si sta dentro il padiglione l’oggetto deve scomparire, deve essere una gradazione di densità e trasparenze cangianti. Visto da certe direzioni è una nuvola a mezz’aria, e da altre è invece un bosco, una macchia d’alberi. Sono qualità armoniche ma bisogna trattarle con attenzione, non deve essere una cosa troppo violenta. L’armonia non è ovvia.”