Che memoria conservano i luoghi di quello che è accaduto? Provate ad andare a Quarto, presso Genova, a vedere di persona lo scoglio da cui sono partiti i Mille per la loro impresa; oppure, in via Caetani, a Roma, dove è stato abbandonato il corpo senza vita di Aldo Moro dentro a un'automobile. In entrambi i luoghi c'è una lapide, un monumento, un oggetto e una scritta, che ricordano che cosa è accaduto in quello spazio, anni, decenni, un secolo fa. I luoghi sono impermeabili alla memoria o la conservano come un segno nella propria identità?
Difficile rispondere a questa domanda, eppure bisogna porsela guardando le fotografie scattate da Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco per il progetto di ricerca curato da Fabio Severo. Raffigurano luoghi dove è avvenuto un reato — da qui il titolo del loro lavoro Corpi di Reato — di stampo mafioso: un delitto, una speculazione edilizia, una casa dove è vissuto un latitante, oppure dove tuttora vive un mafioso, un intero quartiere periferico dove è incistato un clan di malavitosi; o ancora: aule di tribunale, archivi di processi, bunker, reperti giudiziari, statue di giudici uccisi. Sono tutti luoghi, spazi, edifici, inquadrati dal loro obiettivo che vuole indicare, non solo un atto criminale, ma anche una presenza visiva: la mafia è qui, intorno a noi. Un tempo, le fotografie che ritraevano quest'associazione criminale raffiguravano delitti eccellenti, paesaggi della Sicilia: immagini che recavano con sé un elemento oleografico e confermavano luoghi comuni. Erano fotografie di costume, sedimentate nello sguardo dell'intero Paese. Poi, dopo le stragi degli anni Novanta, la mafia è uscita dal suo paesaggio consueto — palme, uliveti, rocce, muri a secco, asinelli, coppole, uomini baffuti, donne in nero, ritratti di latitanti, banditi, separatismo e così via — ed è entrata in una sorta d'invisibilità.
Dopo le stragi degli anni Novanta, la mafia è divenuta una realtà dispersa, multiforme