Gianni Pettena, al momento in mostra presso due spazi milanesi, la Galleria Federico Luger e la Galleria Enrico Fornello, non smette di conquistare lo sguardo sottile e curioso di chi come me prova un immenso piacere a identificare lo spirito sovversivo e l'immaginario tipico della lotta politica degli anni '60 e '70: il bianco e nero opacizzato delle foto di documentazione, i volti delle "piazze", un'allusione sottesa a una ideologia molto precisa.
Sono le imprese di un architetto che in maniera quasi didascalica ci dichiara l'approccio al suo mestiere, sottraendosi alle regole prestabilite dai codici
Nello Utah, ad esempio, nei pressi di Salt Lake, nel deserto incontaminato della Monument Valley, nella strada che conduce all'Arizona passando attraverso le abitazioni dei Navajos o di qualche altra popolazione indigena; alla ricerca di frammenti di paesaggio, di dettagli architettonici fatti di natura, già storicizzati dalla visione, per il semplice fatto di essere stati guardati. Dunque esistono. Fisicizzazioni non consapevoli, come lui stesso le definisce, restituite allo spettatore in forma di analisi.
Il connubio che intreccia il linguaggio architettonico a quello puramente artistico, si risolve in una configurazione di gesti che aprono lo spazio al tempo e ai suoi inevitabili passaggi. Pettena così attende che l'alta marea salga, nel Tamigi (Marea, 1974) o nel mare dell'Elba, dove ha costruito la sua casa così come la natura glielo ha chiesto.
Martina Angelotti