La Mostra d’Oltremare nasce in epoca fascista, tra il 1938 e il 1940, sotto gli auspici del delegato governativo Vincenzo Tecchio e con la sapiente regia di Marcello Canino, che scelse alcuni tra i protagonisti della cultura architettonica italiana dell’epoca. L’obiettivo era quello di consacrare i fasti della politica coloniale del Regime, che vedeva in Napoli un ponte tra l’Italia e l’Africa. Si voleva dotare la città di una struttura moderna, destinata ad accogliere manifestazioni di carattere espositivo, culturale, turistico ed economico, nell’ottica della rinascita della civiltà latina. In realtà, la Mostra vivrà pochi mesi, prima di diventare un relitto archeologico. Bombardamenti, occupazioni e saccheggi durante (e dopo) la guerra ridussero molti edifici allo stato di ruderi. Si discusse a lungo sul destino di questa ‘macchina’ urbana. Alla fine, si decise di intervenire: è il 1952. Il piano di recupero – affidato a Luigi Tocchetti – prevedeva il ripristino di molte parti. A tale compito furono chiamati vari architetti (Capobianco, Marsiglia, Sbriziolo, Maione, Mendia, Sfogli, Nunziata e Salvatori). L’aspetto e la tipologia non furono modificati, mentre scomparve il carattere celebrativo. Un momento di fortuna. Dopo, c’è stata una lunga e drammatica crisi, culminata, negli anni Ottanta, con le ‘occupazioni’ dei terremotati. Dal 1998 è stata elaborata un’intelligente strategia di ripristino: in questa direzione vanno gli interventi di restauro del Teatro del Mediterraneo, della piscina, dell’Arena Flegrea, del Cubo d’Oro e del Padiglione Caboto. (Vincenzo Trione)
Padiglione del Lavoro italiano in America Latina
Alfredo Maria Sbriziolo: Il progetto è del 1949. La pensilina era volutamente sbilanciata rispetto alla parete di fondo, e finiva a sfumare nel verde: praticamente era tutto trasparente… L’ingresso non era quello attuale: si entrava ai lati del pannello murario arretrato, e quindi la bucatura diventava uno specchio, una cosa chiarissima, invece di questa specie di croce… L’allestimento lo disegnammo noi stessi… La cosa bella della Mostra era il verde. Nei dieci anni di intervallo dalla prima mostra tutte queste alberature erano diventate bellissime, poi invece furono distrutte. In origine c’era una bella decorazione di Renato De Fusco.
Vincenzo Trione: Quali erano i vostri riferimenti progettuali?
AMS: Mah... Eravamo molto giovani, avevamo una passioncella per i primi razionalisti: Terragni, Figini e Pollini; …però ci influenzò molto proprio l’aria, il verde…
VT: In che maniera intendevate dialogare con gli edifici che circondavano la vostra ‘invenzione’?
AMS: Una forma di dialogo poteva essere questa specie di porticato molto semplice… Alle volte si disegna senza pensare tanto al dialogo con quello che c’è attorno. L’intento era di non creare qualcosa che potesse fare contrasto, ma poi, insomma, ognuno progettava un po’ come voleva… La pensilina, che penetra all’interno diventando una sorta di ballatoio, poteva essere usata come un balcone da cui affacciarsi sulla piscina, sulla fontana.
VT:Come le sembra la fontana progettata da Cocchia? Forse appare un po’ di maniera…
AMS: Il disegno del mosaico non era un granché, un po’ banale… però la fontana in azione era bellissima. Si alzavano cortine d’acqua colorata che facevano un effettaccio: godersela dal balcone poteva essere bello… All’interno, il ‘ballatoio’ si affacciava sulla sala Cristoforo Colombo e si vedeva, dall’alto, il modello della caravella… La sala era molto vivace, colorata. Io avevo disegnato tutta la parete di fondo. Era una struttura d’esposizione perfetta.
VT: In effetti, ancora oggi il padiglione potrebbe offrire straordinarie possibilità espositive in una città come Napoli, in cui si avverte la mancanza di spazi museali adeguati alle necessità dell’arte contemporanea. Ora, a rivederlo, che cosa prova? Al di là delle modifiche apportate al vostro progetto…
AMS: Ritrovo, oggi, questa struttura abbastanza serena, pulita, chiara. Però i particolari sono proprio incerti, rozzi: queste portacce brutte! …la volgarità di questi infissi… peggio ancora! … tranne qualche parte isolata. Diciamo che è raffinato con dei limiti. Teniamo conto che questa è una cosa fatta cinquant’anni fa e con pochi mezzi; …però c’era una cura diversa del particolare.
VT: In fase di restauro sono state commesse violenze e alterazioni rispetto al vostro progetto. Modifiche che lei scopre solo adesso…
AMS: …ma io mo’ sono venuto! Noi, con Michele Capobianco e Arrigo Marsiglia, avevamo lo studio insieme. Per tre, quattro anni abbiamo fatto concorsi. Per esempio quello per la stazione, dove ci siamo aggiudicati il secondo premio. Poi ognuno se ne è andato per la sua strada.
VT: Qual era, all’inaugurazione, nel ’50, l’atmosfera che si respirava alla Mostra d’Oltremare? Come reagì la città?
AMS: Dalla città fu accolta benissimo. C’era gente diversa, però, rispetto a dieci anni prima … Si inaugurò con spettacoli nell’arena, …la fontana luminosa, sonora; …era una cosa molto bella, la gente veniva.
VT: Ad attraversare ora questo territorio si ha la sensazione di trovarsi in un luogo ambiguo, autonomo e, al tempo stesso, in rapporto con la città.
Cherubino Gambardella: La cosa suggestiva è che, pur essendo un recinto rispetto a Napoli, la Mostra aveva il fascino di una scoperta ludica dei napoletani che facevano di questa un’area per il tempo libero... Ma devo dire che alcuni edifici sono davvero orribili.
AMS: Quali?
CG: Per esempio il Rodi e i padiglioni in stile, fatti da Ceas e dagli accademici.
Padiglione Caboto
VT: Qual è la storia del padiglione Caboto, in cui tu Cherubino sei intervenuto?
CG: Questo era il padiglione del commercio e del credito disegnato da Bruno La Padula, bombardato durante il ’39; faceva parte del prolungamento del padiglione dell’America Latina. Io mi sono occupato del suo restauro: in realtà si è trattato di una vera e propria ricostruzione. Mentre cominciavamo il restauro, il padiglione ha subito il crollo del solaio. AMS: Era collegato al padiglione dell’America Latina. Si passava dall’uno all’altro, attraverso un pergolato con del verde rampicante.
CG: Il pavimento è inclinato perché c’era un salto di quota. C’erano tre ambienti quando sono intervenuto. Fu trasformato in deposito negli anni Settanta. Ho ripristinato l’ambiente unico e ho alzato leggermente la parte di testata… Dentro la rampa, un percorso che finisce con una scala di metallo e che si conclude con una spirale. Questo corpo ha vissuto tre vite: la prima costruzione era la sede della Banca d’Italia nelle terre italiane d’oltremare; poi è diventata il padiglione del commercio e del credito, successivamente bombardato. Capobianco, Marsiglia e Sbriziolo ebbero l’incarico da Canino di ricostruire l’intera insula, comprensiva del fronte sulla torre delle Nazioni, che poi è diventato il padiglione dell’America Latina, in sostituzione dell’edificio di La Padula. AMS: Noi facemmo il progetto, lo demmo a Canino che lo approvò. Cocchia invece ci fece cambiare tutto, forse perché dava fastidio alla sua piscina. Allora fu adottata questa soluzione.
CG: Il deposito su cui ho lavorato era diviso in tre ambienti, ognuno dei quali aveva una quota. Ognuno corrispondeva a una terrazza di imposta. Per fare un edificio unico abbiamo dovuto montare una struttura in acciaio, per reggere il corpo più alto che non aveva più l’appoggio del grande muro interno. Quando è crollato tutto il sistema, è rimasto soltanto il basamento. Tutti i lavori della Mostra furono fatti in regime di autarchia, quindi senza ferro. Sembrano solidi ma sono fragilissimi.
VT: Che effetto le fa la nuova versione del padiglione Caboto?
AMS: Provo una strana sensazione: un intervento molto accurato e intelligente. Ma mi dispiace che qualcuno possa aver messo le mani su un mio edificio…
Arena Flegrea
AMS: La curvatura del frontone era diversa. Questa mi sembra quasi una spezzata… Poi la base… era molto più bella perché aveva dei grossi tappeti di verde che si alternavano alle scale. Invece qua è tutto sbiancato. Le scale sono state moltiplicate, erano molte meno.
CG: Oggi sembra un tutt’uno, mentre si doveva avere un’idea completamente diversa: di un basamento, di un corpo centrale, e di un coronamento. Ho la sensazione che questo sia diventato uno spazio troppo ingessato.
AMS: Sì, è gessosa ‘sta cosa; non è brutta, intendiamoci… queste cose un po’ egizie. Adesso il teatro è chiuso da due pareti. Mi pare di ricordare, invece, che quello precedente rielaborava un po’ il tema dei palchi nel teatro…
VT: A rivedere adesso l’arena, mi sembra un edificio meno legato ad aspetti politico-ideologici. Una costruzione metafisica, astratta nella sua purezza bianca. È come se De Luca, nella fase di restauro, nel 1990, avesse voluto ripulire il suo teatro da ogni riferimento storico, da ogni legame con il contesto culturale; si è voluto liberare dal peso della cultura del regime.
AMS: A me, invece, ricorda molto quei grandi teatri all’aperto americani. Io non ho paura della classicità, della monumentalità, se non è retorica. È una questione di qualità. Certamente questi luoghi hanno un diffuso riferimento alla romanità… Del resto era un’opera molto giovanile: all’epoca De Luca aveva 28 anni: era l’età in cui si lavorava qua... Anche il fondale non mi convince: è un terrapieno, è povero. Della pedana, poi, è meglio non parlare… Mi sembra una di quelle cose che si fanno per le feste di piazza.
Cubo d’Oro
CG: Qui c’è l’affresco di Mussolini a cavallo, fatto da Brancaccio, che era un pittore di regime. Quando ho incominciato i lavori di restauro, ho voluto che i bossoli di mitra sparati dagli americani quando sono entrati qui dopo la liberazione fossero lasciati in vista.
AMS: Brancaccio non era di regime. Le uniche cose di regime che ha fatto sono queste. Poi faceva nudi. Era bravo come pittore. Faceva una pittura napoletana “d’ispirazione”, signore con la paglia, bagnanti.
CG: Il rapporto tra il Cubo e il bosco di eucaliptus non c’era più, perché in realtà bisognava fare un lungo giro per arrivarci. L’idea è stata quella di fare una scala in modo che si potesse passare dalla terrazza direttamente qui. Abbiamo fatto un restauro abbastanza filologico, mentre nella parte bassa c’è l’intervento nuovo. Il blu è provvisorio. In realtà dobbiamo ripristinare la pilastratura in piperno come era in origine, fare tutti i cancelli come erano nella versione originaria. Erano fatti in ebano, poi i terremotati nell’80 occuparono il Cubo d’Oro e li usarono come legna da ardere.
VT: Quanto tempo sono rimasti i terremotati?
CG: Diversi anni. C’era un campo container.
VT: Un’occupazione necessaria?
CG: Un’occupazione necessaria però anche molto politica. Distruttiva e politica.
AMS: Poi hanno staccato il verde…
CG: Hanno distrutto tutto. La Mostra era ancora dignitosamente conservata fino agli anni Settanta quando si facevano diverse manifestazioni. Poi questo intervento dei terremotati fu devastante. AMS: La Mostra, dopo la seconda inaugurazione, funzionò per pochissimo tempo: fecero al massimo cinque opere all’arena; poi c’era la piscina dove venivano per la pallanuoto… Venivano a giocare a pallacanestro anche i Globetrotters. I ristoranti funzionavano. Era proprio un parco. Si stava bene. Adesso mi sembra tutto imbalsamato.
VT: In alcuni punti sembra stia vivendo una nuova vita. In altre parti, passeggiando, ci si sente come in una strada di Beirut, tra detriti e macerie. Quale sarebbe, secondo lei, il modo migliore per restituire la Mostra alla città?
AMS: Per esempio i congressi, invece di farli sotto le tende.
CG: Li fanno, infatti. L’attuale gestione ha tentato di riportarla a una visione originale. Ma l’appunto potrebbe essere di non averla adeguata ai cambiamenti con l’aggiunta di altre funzioni e l’inserimento di privati di qualità. Questo aiuterebbe a riqualificare delle zone, perché è un patrimonio così vasto che è difficile che una comunità possa gestirlo con finanziamenti pubblici.
VT: Abbandonare, quindi, un’ottica puramente conservativa. E muoversi nella dimensione della contemporaneità…
Palazzo dell’Arte e Teatro Mediterraneo
AMS: Non è male il disegno del fronte, ma quei capitelli dorati sono piuttosto brutti.
CG: Così erano nel progetto del ‘40, ma la cosa più importante è l’affresco di Chiancone e Barillà, la più grande opera pittorica parietale mai realizzata a Napoli. Quando ho cominciato a restaurarlo, il loggiato era praticamente una larva, non c’era più nulla. Poi, sulla base di pochi indizi e fotografie, l’ho immaginato come una immensa campitura liscia di sagome vuote dai colori spenti, una via di mezzo tra un encausto pompeiano e un’Amalasunta di Licini. AMS: L’atrio è piuttosto scadente.
CG: Sono d’accordo; ad eccezione della ringhiera con quelle splendide bolle di vetro soffiato dai mille colori… la attribuiscono a Ponti ma a me sembra più una cosa di Mollino.
AMS: Il teatro è molto riuscito: Piccinato lo aveva disegnato integrando palcoscenico e spettatori, un palco girevole che entrava nella cavea.
CG: Un teatro totale…
VT: Ancora una conferma della vocazione sperimentale di questo atipico recinto napoletano…