2010. Southwark è il quartiere della Tate Modern di Herzog & De Meuron e del Millennium Bridge di Arup & Foster, del Bourough Market, del More London di Foster & Partners, del Riverside Walkaway, la passeggiata lungofiume verso il Tower Bridge fino alle Shades Thames e al Design Museum di Joseph Conran. È il quartiere della London Bridge Station, uno dei 5 maggiori nodi infrastrutturali della città, in cui sorgerà la London Bridge Tower, grattacielo- piramide di Renzo Piano. È il quartiere di Bermondsey street, una delle strade più minimal-fashion del momento; giù a Peckam ora, c’è la Biblioteca colorata di Alsop & Stormer, un polo culturale di forte attrazione in cui fare una sosta a leggere qualcosa in poltrona anche al ritorno dalla spesa, magari togliendo le scarpe per riposare meglio.
SOUTHWARK è il quartiere in cui si intrecciano i viadotti ferroviari di ingresso a Londra da sud-est, viadotti che tagliano lo spazio urbano e ne costituiscono una barriera fisica e visiva, oltre che psicologica. Barriera anche sociale, allo stesso modo in cui il fiume fino a pochi anni fa, è stato ostacolo fisico alla rigenerazione/integrazione delle aree a sud della città. I tunnel-sottopasso qui sono ben frequenti e alcuni raggiungono lunghezze anche superiori ai cento metri.
BANKSIDE è il pezzo che di Southwark appartiene alla London South Central, la Zona 1 della città. Immediatamente a ridosso della London Promenade lungo il Tamigi, è il luogo in cui la sovrapposizione di strade e viadotti è più fitta che altrove; STRADA-CON-VIADOTTO è il binomio costante cui si attaccano a calamita le funzioni più disparate.
I TUNNEL: 97 tunnel, indisturbati e neri come trafori, hanno egregiamente assolto fin qui la funzione di collegare quanto i tagli delle ferrovie nel tempo, andavano separando. Architettonici al punto giusto nelle tessiture di mattoncini a vista, mai, quei i tunnel, avrebbero immaginato di dover ospitare “clienti” diversi dai camionisti che trasportavano merci da un capo all’altro, sbuffandogli dentro residui grigio diesel. Il cambiamento ha portato gente nuova, non più solo ‘workers’ ma anche nuovi ‘residents’ e ‘visitors’, nella maggior parte rigorosamente ‘pedestrians’. Tutti, turisti e non, hanno risposto al richiamo della trasformazione, curiosi di scoprirne le novità, conoscere i nuovi spazi dell’ozio, la ‘grana larga’ del nuovo quartiere, le ampie viste sul fiume. Nei tunnel neri, insieme a macchine e camion ha cominciato a transitare anche gente a piedi.
LA TATE MODERN detta il nuovo codice dell’area: l’arte come forma di comunicazione urbana. Il quartiere diventa meta di creativi e si attrezza per accoglierli al meglio: molte le gallerie d’arte, i laboratori di design (tra la Oxo Tower e Crucifix Lane), le residenze di artisti (Delfina e Jam Factory, la vecchia Hartley).
E I TUNNEL lì, ad inghiottire il cambiamento, nel grigio diesel dei mattoncini orditi a faccia vista, nel rumore ‘grow’ dei motori che li attraversano. La vita fuori è frizzante, la vita notturna sempre più frequentata, i tunnel separano col buio lo spazio che fuori, di notte, si accende. Nel 2002 la Cross River Partnership decide che è il momento di ‘accendere’ UNA LUCE (ALLA FINE) DEL TUNNEL e avvia il progetto denominato Light at the End of Tunnel (LET). Da una necessità pratica, un programma che interpreta le nuove esigenze con un linguaggio che arriva a tutti, una sorta di "arte della pubblica illuminazione" con l’installazione di illuminazioni artistiche e opere d’arte lungo i sottopassi ferroviari per creare nuove "esperienze sensorial-pedonali".
L’iniziativa della CRP viene poi coordinata con il «Lighting Masterplan», elaborato su iniziativa della Pool of London (Partnership): nasce così la Bankside lighting strategy (progetto della Equation Lighting Design Ltd) che analizza accuratamente attraverso numerose mappe tematiche, le fonti luminose esistenti, gli usi prevalenti dell’area e l’intensita’ d’uso nelle varie ore del giorno e della notte (considerando che in inverno dalle 16.00 in poi è buio), le diverse categorie dei percorsi, i luoghi in cui si verificano più crimini, i monumenti più importanti, i luoghi che necessitano di essere maggiormente e\o diversamente illuminati.
Il buio grow dei tunnel viene convertito in luce “acid light” che incuriosisce, accoglie, orienta e direziona. LA LUCE è l’elemento centrale degli interventi, usata in un codice programmato di colori, forma, ritmo (per geometria e intensità) e funzioni (ambiente/atmosfera, punti strategici, percorsi e ingressi).
Ma come si è accesa quella luce nel tunnel? Ci sarà pure un interruttore da qualche parte! Abituati come siamo ad accettare progetti (e relative realizzazioni) auto-referenziati, sganciati da qualsivoglia forma di programmata pianificazione e gestione urbanistica delle nostre città, completamente appagati dal fatto stesso che la rara opera (pubblica o privata che sia) giunga a realizzazione, riteniamo quasi disdicevole porre alla riflessione l’interrogativo del COME. Modalità quali “in deroga” o “in variante” o addirittura “in emergenza” sono più che sufficienti a spiegarci l’accaduto (perché quando accade è già un successo, meglio non indagare oltre).
Ebbene, la vicenda dei tunnel, la banale vicenda di un neon che si accende in una sporca galleria di Londra, basta a ricordarci che ALTROVE NON È COSI’.
No, i signori della Cross River & Partners e lorsignori della Pool of London (di seguito developers) non si sono svegliati un giorno di buon mattino per decidere di investire in città un po’ di sterline improvvisandosi elettricisti, proprio no. Qualcuno prima di loro, ovvero il London Borough of Soutwark (LBS), meglio identificabile come l’ufficio tecnico dell’apposita circoscrizione comunale, redige - nel 1974 prima e nel 1981 poi - due piani di rilevanza strategica per le trasformazioni che si sono verificate nell’area nei successivi trent’anni.
È davvero così difficile immaginare che a queste – strategiche - regole potessero appartenere anche – insignificanti - lampadine a basso consumo da sistemare nei tunnel? Sì è difficile, una battuta di quelle che non fanno ridere.
E invece il North Southwark District Plan, già nel 1981 (quando i tunnel erano bui e grigio-diesel per intenderci) censisce le barriere urbane dei viadotti e i relativi nodi deboli delle relazioni viarie in tunnel, e li segnala come oggetto di studi e piani particolareggiati da redigere per il futuro. Nello sfacelo totale della dismissione, nel carosello delle valutazioni comparate di progetti economicamente succulenti che attraevano capitali e investitori come api al miele, nel 1981, ci si preoccupa di dare un ruolo urbano (anche) a viadotti e tunnel.
È con questi stessi piani che si decide per la prima volta che in quei tunnel bisognerà – assolutamente – accendere una luce.
Nel 2001 La Tate Modern commissiona a Richard Rogers il Bankside Urban Study. Quali gli obiettivi/intervento suggeriti - tra gli altri - dallo studio di fattibilità di Rogers? Proprio loro: I TUNNEL! Ritorna l’equazione “viadotto ferroviario = barriera da superare, spazio da rivitalizzare”; torna – meglio definito - l’obiettivo “attraversamenti più sicuri e piacevoli” con illuminazioni speciali e opere di arte pubblica, idea che confluirà – magicamente - proprio nell’iniziativa LET della Cross River & Partners (quelli che si svegliarono un giorno di buon mattino, ma non per fare gli elettricisti).
L'INTERRUTTORE? Un telecomando ad orologeria a cui il timer è stato programmato circa trenta anni fa. Un interruttore che si chiama pianificazione urbanistica - organica e continua nel tempo- praticata da persone che pianificavano con la gente e per la gente il modo migliore per accendere la luce al momento giusto, quando tutto (o quasi) intorno fosse pronto per… attraversare il tunnel.
Il primo tunnel è stato inaugurato tre anni fa, il tunnel di Bermondsey, il mese scorso.
(Photo and youtube-video in webside box, made by myself & my bike).
Emilia Antonia De Vivo
Cristina Falvella (architetto, dottoranda in Urbanistica alla Federico II di Napoli, specializzata alla Roma Tre e alla University of Waterloo, Canada. Svolge attività di ricerca sul ruolo degli spazi pubblici nella riqualificazione delle aree dismesse).